Tratto dal romanzo omonimo di Uzodinma Iweala (uscito da noi come Bestie senza una patria) e presentato a Venezia 72, Beasts of No Nation di Cary Joji Fukunaga è stato il primo lungometraggio originale prodotto da Netflix e distribuito contemporaneamente nelle sale e sulla piattaforma on demand (in Italia direttamente su quest’ultima).

Ambientato in un imprecisato Paese dell’Africa occidentale in preda alla guerra civile, il film narra la vicenda di Agu, un bambino di nove anni che, scampato allo sterminio della sua famiglia per mano delle milizie governative, viene costretto ad arruolarsi in un esercito ribelle guidato da un leader carismatico quanto crudele.

Nel suo mettere in scena la sofferenza, l’orrore e la progressiva assuefazione alla violenza di un innocente, Beasts of No Nation è in fondo un racconto di formazione alla morte, che diviene una costante nell’esistenza del bambino, costretto alternativamente a esserne fautore o testimone sempre più impassibile. Al pari del capitano Willard in Apocalypse Now, il piccolo Agu – per la cui interpretazione l’esordiente Abraham Attah ha meritatamente vinto il premio Mastroianni – entra in contatto con il cuore di tenebra della propria specie, quella umana, composta appunto da bestie senza patria che rispondono al solo istinto di uccidere perché è l’unica cosa che è stata loro insegnata, in un viaggio fisico e mentale attraverso un inferno fatto di stragi, droghe e stupri. A porsi come maestro di vita per i bambini-soldato, arrogandosi il diritto di abusarne in tutti i modi possibili, è il feroce signore della guerra noto solo come Comandante (magnificamente interpretato da Idris Elba), un concentrato di paternalismo, stregoneria, perversione e megalomania che, nel suo inseguire vani quanto testardi sogni di gloria, sembra quasi una variante prettamente africana di antieroi herzoghiani come Aguirre o Cobra Verde.

Già regista della prima stagione di True Detective, Fukunaga dimostra interessanti qualità di autore completo (oltre alla regia e alla sceneggiatura, qui firma anche l’eccellente fotografia dai toni accesi e nitidi, che ritrae l’Africa nei suoi colori d’elezione), confezionando un’opera di notevole potenza visiva, con picchi di violenza dettagliata, tuttavia mai gratuita, senza rinunciare ai piani sequenza che sono ormai il suo marchio di fabbrica (ce n’è uno che resta particolarmente impresso, in cui la terra, il fango e tutto l’ambiente si tingono cammin facendo del rosso del sangue).

Alla lunga il meccanismo narrativo si raffredda in parte e, dietro a tanta cura dei dettagli estetici, di pari passo con la perdita di emozioni del protagonista si perde un po’ anche il coinvolgimento dello spettatore, con il sospetto che la forma prenda il sopravvento sulla sostanza, ma Fukunaga è bravo a non cedere al buonismo della retorica hollywoodiana e a lasciare nel finale quell’ambiguità non consolatoria che sembra rifarsi a un’idea di blockbuster per adulti tipica del cinema di fine anni ’70, a cui riportano oltretutto le sonorità synth alla Tangerine Dream della partitura di Dan Romer.

Davide V.Edoardo P.
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