Mettiamo subito le cose in chiaro: in questa recensione non si sbrodolerà inutilmente sul maestoso formato Ultra Panavision 70mm; o sulle mostruose prove attoriali fornite da Samuel L. Jackson e da Jennifer Jason Leigh (seguiti a strettissimo giro di ruota da Kurt Russell e Walton Goggins); e neppure si perderà del tempo ad analizzare la monumentale padronanza registica di Quentin Tarantino, in grado di far implodere attorno a una diligenza degli sconfinati paesaggi innevati, e, al contrario, far esplodere uno spazio chiuso con una gestione della profondità di campo e della posizione della macchina da presa semplicemente inarrestabili. No, in questa recensione si parlerà di come il gruppo di personaggi raccolto all’interno dell’emporio di Minnie rappresenti una riduzione in scala dei conflitti etnici, politici e sociali degli Stati Uniti post guerra civile (conflitti poi non molto differenti da quelli contemporanei); o di come questi personaggi siano sempre molto attenti ai dettagli, indaffarati come sono a chiedersi e scambiarsi informazioni spicciole sui propri nomi, le proprie storie, o il modo in cui sbarrare una porta d’ingresso, e non siano invece in grado di cogliere il senso globale di quello che sta effettivamente accadendo, di vedere e riconoscere una struttura – composta da continue rievocazioni di passati diversi, storici e fittizi, generali e particolari – nella quale si sono auto-imprigionati.

Si passerà poi ad analizzare come la girandola tematica e narrativa messa in scena da Tarantino si consumi in una mattanza indiscriminata, in un massacro nel quale a trionfare in egual misura sono l’odio di una nazione nei propri stessi confronti e l’ambigua proposta di un nuovo patto narrativo, fondato su valori di convenienza, ahinoi, non molto dissimili da quelli distrutti in precedenza. Si parlerà, in sostanza, di come The Hateful Eight sia un’opera sull’incapacità di immaginare, una volta esaurita la possibile combinatoria dei generi e delle tecniche narrative, una via d’uscita da quella trappola mortale che è l’ipercitazionismo post-moderno; una storia che parte da un Cristo crocifisso dimenticato e sovraccarico, correlativo oggettivo di una narrazione svuotata di ogni salvezza o redenzione, una mitopoiesi fallata che altro non può produrre che ulteriori, sempre nuove menzogne mortali.

Di questo, proprio di questo parlerà la qui presente recensione di The Hateful Eight. Starting to see pictures, ain’t ya?

Gualtiero B.Davide V.Giacomo B.Giusy P.Sara M.
88 1/29108