Reduce dal successo di critica e da apprezzamenti generali ottenuti nel corso del 68° Festival di Cannes, ai quali non è seguito altrettanto successo nel palmarès, Al di là delle montagne di Jia Zhangke conferma la caratura del regista cinese, già evidente nel Leone d’Oro del 2006 Still Life e nel cupo Il tocco del peccato.

Il pregio migliore messo in mostra dal regista è quello di trovare una perfetta sintesi tra pubblico e privato, riuscendo così a raccontare senza proclami e senza didascalismi i mutamenti e le contraddizioni della Cina contemporanea, scegliendo di puntare il lumicino su vicende intime e personali che diventano emblematiche. Il film è diviso in tre capitoli: il primo ambientato nel 1999, il secondo nel 2014 e il terzo nel 2025. Ogni spezzone temporale ha il suo formato: la ristrettezza del 4/3 per il passato, il widescreen per il presente e l’ampiezza del Cinemascope per il futuro. Anche la fotografia è differente; si passa dal naturalismo e dalle sgranature del 1999, al dominio dei toni freddi e grigi per la contemporaneità fino all’abbagliante luminosità (futurista, ma non troppo) del futuro prossimo. Il film segue le vicende di Thao (Zhao Tao), nel 1999 contesa dal ricco e rampante Zhang e dall’operaio Liangzi; sceglierà il milionario, dal quale avrà un figlio chiamato Dollar. Separata dal marito, emigrato in Australia con il figlio, nel 2014 aiuterà per l’ultima volta, con più di un rimpianto per le scelte del passato, l’amico Liangzi. Nel 2025, lasceremo per un attimo dietro le quinte la protagonista (che tornerà nel magnifico finale dove si tirano le fila del discorso) e ci concentreremo su Dollar (Dong Zijian), ormai adolescente, incapace di parlare cinese e inconsapevole delle sue origini, ma più o meno inconsciamente attratto dal vago ricordo della madre e della sua identità.

È proprio l’identità il punto su cui il melodramma di Zhangke, emozionante nella sua essenzialità e nel pudore con cui gestisce le “scene madri”, si concentra e diventa metafora. Il futuro di diaspora, fisica e interiore, a cui è costretto il giovane Dollar diventa quasi una distopia nella quale il popolo cinese non è più quello che era, né è davvero diventato qualcosa di nuovo. Situazione che contrasta, e che in qualche modo è resa ancora più inquietante da essi, con gli spazi naturali e la luce abbagliante dei paesaggi australiani esaltati dal cinemascope. Del resto, proprio la naturalezza con cui si passa da un formato all’altro e da una fotografia dominante all’altra rende l’idea di un processo ovvio e inevitabile. Tao è il personaggio più significativo anche perché in lei maggiormente si combattono e convivono tradizione e cambiamento, quello che rimane allo stesso tempo più sospeso in questo limbo tra passato e futuro e più consapevole, sotto più di un aspetto vittima, ma anche quello più capace di aggrapparsi ancora ad appigli.

Zhangke regala, in conclusione, un film prezioso, non solo per il continuo dialogo tra pubblico e privato e per come diventa sconsolato racconto di una nazione e di un popolo sospesi; Al di là delle montagne emoziona e convince anche per le sue qualità più strettamente legate al suo essere melodramma.

Edoardo P.
8 1/2