Gilmore Girls A Year in the Life

L’operazione targata Netflix Gilmore Girls: A Year in the Life è stata una delle più attese del 2016. Sono passati nove anni dalla controversa ultima stagione di Una mamma per amica, orfana della storica showrunner Amy Sherman-Palladino, che torna a dirigere la writers room per questi 4 episodi da 90 minuti, uno per ogni stagione dell’anno. L’annunciato ritorno di praticamente tutto il cast originario aveva contribuito a innalzare l’hype a livelli stellari. E allora, com’è andata?

Dal punto di vista prettamente narrativo la serie gioca le sue carte migliori: azzeccata la scelta di mostrare una Rory in difficoltà lavorativa, a sottolineare che Yale non basta a tenere lontano l’incubo della precarietà, e che dà modo di esibire il carattere di Rory per come la conosciamo, bravissima ma anche a tratti presuntuosa rispetto alle sue capacità; e il percorso totalmente credibile di Lorelai torna come sempre a ruotare attorno al rapporto con Luke da un lato, e al nodo conflittuale con la madre dall’altro, aggravato dalla scomparsa del padre, e declinato persino in una delirante terapia “di coppia”.

Impossibile trattenere la commozione di fronte alle tante scene che chiamano in causa Richard Gilmore, la cui presenza costante nonostante l’assenza fisica è il più bel tributo al suo interprete Edward Herrmann, scomparso due anni fa; impossibile non emozionarsi alla vista di Paris, Lane, Taylor, Kirk, Babette e tutti gli altri, e non tifare per il disgelo davanti agli scambi più dolorosi tra Lorelai ed Emily, Lorelai e Rory.

Purtroppo influiscono sull’andamento generale anche i tanti punti deboli. Certe dinamiche che potevano passare più inosservate nei primi anni Duemila, oggi stonano in modo marcato: su tutti la domestica straniera dall’accento incomprensibile con famiglia al seguito in casa Gilmore, che si rifà a una gag ricorrente della serie, ma il cui ampio screentime evidenzia impietosamente l’eccessivo ricorso allo stereotipo; dimenticabile anche il tentato accenno al tema LGBT, con l’improbabile proposta di un Pride a Stars Hollow, rimandato perché “non ci sono abbastanza gay” – questione in parte riscattata dagli espliciti (finalmente) riferimenti al matrimonio omosessuale di Michel, tra i personaggi meglio scritti in questi quattro episodi.

Altre sequenze si amalgamano male al resto, giustificabili solo con i conflitti di impegni lavorativi degli attori principali. Non si spiega ad esempio il pochissimo screentime dedicato a Jess, nonostante la rilevanza della sua presenza per la svolta creativa di Rory, e l’inspiegabile mezz’ora del discutibile musical su Stars Hollow, che spezza in modo irreparabile il ritmo dell’episodio 3 Summer. Un po’ fuori fuoco anche il legame di Rory con Logan, soprattutto considerando com’era finita tra i due nella serie, che si conclude in una (ancora troppo lunga) sequenza musicale con la Brigata della Vita e della Morte.

Il desiderio di infilare tutto in questo sequel/revival è sia un merito che un limite, ma la scioccante battuta-cliffhanger finale non può che far sperare in un’ulteriore stagione, magari più equilibrata.

Chiara C.
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