Il Far East Film Festival di Udine ha raggiunto quest’anno la sua diciottesima edizione, riuscendo a mantenere quel clima caloroso e popolare che lo rende uno dei festival più piacevoli da frequentare, nonché tappa obbligatoria per gli appassionati di cinema dell’Estremo Oriente.

Purtroppo però la qualità media dei film visti nei tre giorni passati a Udine è stata al di sotto delle aspettative, tanto che le cose migliori si sono viste nella personale su Obayashi Nobuhiko, insignito del premio alla carriera. Exchange Student (1982) è infatti una commedia intelligente e progressista sullo scambio di corpi, mentre il cult House (1977) ridefinisce l’horror con una miriade di invenzioni pop e psichedeliche esibendo, come nel film precedente, una sessualità libera e gioiosa che oggi farebbe scandalo.

Sul fronte delle nuove proposte a uscirne meglio è stato il Giappone, in particolare con Bakuman di One Hitoshi, riuscito adattamento dell’omonimo manga su due liceali che tentano la scalata al successo nel mondo dei fumetti. Sostenuto da un ottimo ritmo e da trovate visive interessanti, è esattamente il tipo di prodotto popolare e ben confezionato che ci si aspetterebbe di trovare al FEFF. Meno commerciale è Hime-Anole che inizia come una commedia romantica per trasformarsi in dramma cupo e disturbante, in quello che è uno dei più brutali – e spiazzanti – scarti di tono del cinema giapponese recente. Non è allo stesso livello Maniac Hero, sorta di Kick-Ass meno violento e più demenziale, con un quartetto di improbabili vigilanti, protagonisti di gag comunque divertenti.

La delusione più grande è stata però Cao Baoping che, dopo l’eccezionale The Equation of Love and Death nel 2008, torna a Udine con The Dead End. Pur continuando a giocare con le variabili del caso e i destini incrociati, questa volta il risultato è un thriller troppo meccanico e con un’estetica derivativa. Un difetto che lo accomuna all’altro cinese, Chongqing Hot Pot, che ruba le scene migliori ad altri classici orientali e, pur partendo da uno spunto interessante, non trova mai una propria identità. Viene invece da Hong Kong Weeds on Fire, un’opera prima appassionata che però non si spinge mai oltre le risapute dinamiche del genere sportivo e del dramma adolescenziale.

Mostra tutti i limiti di una cinematografia ancora acerba Bitcoin Heist, action vietnamita voglioso di emulare gli stilemi hollywoodiani e di Hong Kong, ma con scarsi risultati. Deludente anche l’unico coreano visto, Fatal Intuition, un prodotto tra il thriller e l’horror che richiama le atmosfere cupe di film come Mother senza però averne lo stesso impatto drammatico. Pessimo infine Lost in Hong Kong, sequel del fortunatissimo Lost in Thailand sempre a opera di Xu Zheng che non riesce a strappare neppure un sorriso.

La 18° edizione del FEFF ha sancito ancora una volta la capacità del cinema coreano di intercettare i gusti del pubblico internazionale, portandosi a casa primo e secondo premio con A Melody to Remember e Sori: Voice from the Heart. Terzo il giapponese Mohican Comes Home, vincitore anche del premio assegnato dagli accreditati Black Dragon.