La 33a edizione del Torino Film Festival conferma lo stato di forma della manifestazione sabauda, e soprattutto consolida la sua identità, basata su un’offerta pantagruelica sì per tutti i gusti, ma con il focus sul cinema di genere e le sue possibili e quasi infinite variazioni sul tema. Emblematica è da questo punto di vista la sezione Afterhours, dedicata perlopiù agli horror e, in generale, a film che cercano (con risultati alterni) di spostare i confini del genere di riferimento. Esempi di questo tipo si possono trovare, però, anche nel ricco fuori concorso Festa Mobile e nella sezione principale.

Gli esempi sarebbero molti, come l’ottimo polar La Resistence de l’air, esordio alla regia di Fred Grivois, già collaboratore di Audiard (e si vede). Noir teso e meditabondo che non lascia un momento di respiro, nonostante (o meglio, proprio perché…) lavora molto sulle atmosfere e sulle psicologie più che sulla furia delle scene d’azione, dalle evidenti e pessimiste connotazioni morali, è la rappresentazione di come, messi alle strette, si possa accettare di abbandonare le proprie convinzioni e le proprie sovrastrutture morali e culturale, accettando di “scendere all’inferno”.

Dalla Francia arriva anche un film diversissimo, ma altrettanto teso e allo stesso modo dedicato alla banalità del male presente e, se il contesto lo richiede, pronta a scatenarsi in ognuno di noi: Coup de Chaud di Raphael Jacoulot, presentato in concorso e vincitore del premio del pubblico e del premio per il miglior attore, ritratto di una piccola comunità rurale che sfoga le proprie paure, i fallimenti, le reciproche ripicche e i problemi su una figura marginale, non inserita nella comunità e perfetta per il ruolo di capro espiatorio. Il film non è un noir, ma dal genere riprende la tensione (evidente già nella sequenza iniziale, che detta subito le regole del gioco) e le potenzialità metaforiche, rafforzando così il naturalismo di fondo.

Attraversando lo Stretto della Manica, dal Regno Unito sono arrivati il curioso e vivace horror irlandese The Hallow di Corin Hardy (sezione Afterhours), ispirato alle mitologie dell’isola e che unisce il fascino di quelle leggende e delle atmosfere con il ritmo e la violenza del b-movie, con risultati originali e divertenti (il regista ha dichiarato che il film è un incrocio tra Cane di paglia e Il labirinto del Fauno, e ha ragione), e High Rise di Ben Wheatley, visionaria, barocca, eccessiva e bulimica rilettura di Condominio di Ballard. Un film che ha diviso, ma che, proprio grazie alla sua furia stilistica, al suo barocchismo e alla commistione di generi e toni diversi (dall’umorismo cinico, all’horror; dallo straniamento del grottesco all’iper-realismo) diventa una lucidissima, acuta, beffarda e disperata riflessione sociale.

Questi sono solo alcuni esempi di rilettura dei generi visti durante il festival. Da citare, anche se non è un film di genere, il film vincitore: il belga Keeper, che comunque dialoga con i canoni del melodramma raffreddato.