È tutta questione di testa. All’inizio, nel film di Emmanuelle Bercot, la testa è bassa: la macchina da presa è ad altezza bambino, per riprende lo sguardo un po’ vacuo del giovane Malony, sei anni, che osserva la madre sbroccare al cospetto del giudice minorile (Catherine Deneuve). Passano gli anni, la testa è coperta dal cappellino: il ragazzo è cresciutello e lo vediamo, col consenso della stessa trascurata genitrice, alle prese con la bravata preferita, la guida spericolata. Quando lo portano dal solito giudice – solito anche negli anni a venire – la testa è coperta dall’irrinunciabile cappuccio della felpa: come a celare il disagio di un’identità non ancora formata, come a celarsi da un mondo a cui ancora non si appartiene.

A testa alta ha aperto il Festival di Cannes senza troppo clamore. Difficile potesse essere far spellare le mani ai giornalisti, non essendo il classico film “da festival”, sia a causa di un pregio che di un difetto. Il pregio è quello di essere un’opera sincera, persino appassionata nel sincerarsi, in maniera quasi documentaria per un racconto di finzione, del percorso a cui un ragazzo difficile – ennesimo esemplare del cinema francese – si sottopone, tra aule, centri di formazione e l’immancabile celletta del carcere. Il difetto è la prigione della convenzionalità, da cui la regista transalpina non pare voler uscire, reclamando piuttosto il diritto a girare l’ennesimo film sulla mala educaciòn di un ragazzo selvaggio, pur senza chiamarsi Van Sant: ben fatto, anche se poco selvaggiamente.

E pensare che per larghi tratti l’andamento del film di Emmanuelle Bercot è snervante, fitto di contropiedi, di stop and go. L’attesa redenzione di Malony sembra sempre dietro l’angolo, per poi andare in fumo all’accendersi della miccia d’una rabbia incontenibile, perennemente sul punto di esplodere. Qualche adulto imbelle, a volte, getta benzina sul fuoco. L’interpretazione del giovane Rod Paradot è d’una emotività incendiaria: la sua rabbia giovane è bruciante, anche all’atto di concedersi una corsa in ospedale come se fosse sui carboni ardenti o un giovanotto della Nouvelle Vague.

La figura della Deneuve, di contro, incarna il meglio ed il peggio del film. Da un lato, il carisma attoriale si fa valere nell’interpretazione del giudice che dispensa bastone e carota come farebbe un buon genitore, e che sotto l’irreprensibile professionalità nasconde a fatica l’adesione emotiva, se non il tifo per l’adolescente scapestrato. D’altro canto, a dispetto del bel prologo e di una prima ora molto coinvolgente, col passare dei minuti la sensazione è che da quella prospettiva “a testa bassa” del bambino si deragli troppo spesso verso le pastoie di educatori, procuratori, burocrati. La ricognizione, non priva di senso critico, ci sta, ma le aule di tribunale allontanano un po’ dall’istinto sanguigno del giovane Paradot, rischiando di sfociare nella paternale. Fortuna che la formazione resista all’eccesso d’informazione: il coming of age è assolto.

Antonio M.
6 1/2