Orso d’oro a Berlino nel 2015, Taxi Teheran è il terzo film realizzato da Jafar Panahi in condizioni di clandestinità, dopo che la giustizia iraniana gli ha posto il divieto di realizzare film. Con Taxi Teheran Panahi decide di uscire dalla propria abitazione e scendere nelle strade di Teheran, luogo in cui non è consentito l’accesso alla sua videocamera. Per non essere scoperto, gira all’interno di un taxi da lui guidato, servendosi di alcune videocamere installate nell’abitacolo. Il film racconta i dialoghi tra Panahi e i passeggeri di questo strano taxi.

Gli attori sono tutti non professionisti la cui identità è anonima. È difficile stabilire quanto stiano recitando o quanto invece stiano raccontando se stessi. Probabilmente accadono entrambe le cose: Taxi Teheran è uno dei rari film in grado di abbattere il confine tra documentario e finzione e rendere inutile tale classificazione, tanta è la forza della verità che il regista riesce a mettere in scena. Si tratta di personaggi che restano impressi nella memoria, come il venditore a domicilio di film d’autore, commerciante cinefilo che può vantare tra i suoi clienti nientemeno che lo stesso Panahi. Bussa alle porte dei clienti per proporre loro un film di Ceylan o di Kim Ki-duk e, in uno dei momenti più comici, spaccia Panahi per suo socio presentandolo a un cliente con l’intento di incrementare le vendite.

Panahi non parla mai direttamente del suo status di regista esiliato. Proprio l’assoluta mancanza di autoreferenzialità, l’ironia amara con cui affronta la sua condizione, la curiosità che rivolge, nonostante tutto, al mondo che lo circonda, tutto ciò rende ancora più forte il suo grido di libertà. Le poche sequenze autobiografiche risultano particolarmente intense, ed è straziante il momento in cui Panahi rivela alla nipote di sentire a volte strane voci, non sa quanto vere oppure frutto della sua immaginazione, che gli ricordano le persone che lo picchiarono quando era in carcere.

Sembrerà paradossale, viste le condizioni in cui il film è stato realizzato, ma Taxi Teheran è anche un film di montaggio. Panahi alterna sapientemente l’uso delle videocamere fisse con altri dispositivi di ripresa che appartengono ai viaggiatori, come la fotocamera utilizzata dalla nipote. Riesce a dare ritmo all’immagine e a trasformare un film che dovrebbe essere fatto di sole parole in un film di volti, di luoghi e di azioni.

Il tema centrale del film è la giustizia in Iran. In particolare, il reato di furto è oggetto di numerosi dialoghi e diventa una straordinaria metafora nel bellissimo finale: la fine delle immagini e il conseguente buio che ne deriva creano nello spettatore un senso di angoscia, simbolo perfetto della condanna subita dal regista. Nell’inattesa sottrazione dell’immagine, nella privazione momentanea della libertà di guardare, lo spettatore ritrova un briciolo del dolore del regista privato della libertà più grande, quella di mostrare.

Michele B. Eugenio D.
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