Paterson

Una delle chiavi dell’ultimo film di Jim Jarmusch, Paterson, è proprio nei vari significati che investono il titolo del film: Paterson è la città del New Jersey ed è il nome del protagonista, che lì vive e lavora come autista di un autobus, e che nel tempo libero scrive poesie. Paterson è anche il titolo di una serie di volumi che il poeta William Carlos Williams dedicò alla sua città negli anni ’40 e ‘50 – poeta ammirato da Paterson e fonte di ispirazione per la sua scrittura.

Come è stato notato la stessa struttura del film sembra richiamare un componimento poetico edificato sulla variazione nella ripetizione: sette giorni della settimana in cui Paterson si sveglia molto presto, con la fidanzata Laura (Golshifteh Farahani) semi-addormentata di fianco, va al deposito degli autobus, scrive prima di cominciare il turno (le poesie per il film sono di Ron Padgett), guida per le vie della città, ascolta i frammenti di conversazione dei suoi passeggeri, torna a casa, porta a spasso il cane Marvin, beve una birra al bar di Doc. Sette giorni che servono a Jarmusch per incorniciare la sua cifra minimalista in un ritmo lento, punteggiato di minime e consequenziali variazioni, prendendosi tutto il tempo necessario a lasciarci entrare in questo universo così rarefatto eppure così presente e connotato.

Le cascate del Passaic River fanno da sfondo a un’umanità incredibilmente diversificata (Adam Driver è praticamente l’unico attore bianco del cast, assieme a Kara Hayward e Jared Gilman, i due giovani attori di Moonrise Kingdom impegnati in un cameo delizioso) e caratterizzata, come sempre in Jarmusch, da tratti definiti e ricorrenti: un hobby (gli scacchi di Doc), una croce da portare (l’amore non corrisposto di Everett), e soprattutto, una passione, un’attitudine verso la quotidianità. La poesia per Paterson (personaggio), ma anche la collezione di personaggi famosi di Paterson (città) che campeggia dietro il bancone di Doc – e che richiama la parete di idoli di Adam in Solo gli amanti sopravvivono –, o l’espressività creativa di Laura, che per quanto incontenibile funziona anch’essa come ripetizione di uno stesso pattern (il bianco e nero) che rischia di ingabbiare anziché aprire al mondo.

La tensione tra la schizofrenia creativa di Laura, la quotidiana lettura poetica della realtà di Paterson, e l’abitudine a rinchiuderla, contenerla (tra le mura di casa, o le pagine di un “diario segreto”) potrebbe prestarsi a una lettura agrodolce sull’incapacità di compiere il passo successivo e proporre al mondo la propria arte. Ma è più probabile che Jarmusch ci stia raccontando il diritto a gestire l’esperienza creativa in totale libertà, riversandola a piacere nel colore dei cupcake appena sfornati, o usandola come filtro discreto nei confronti del mondo esterno e delle proprie routine. A tenere insieme la città, i personaggi, l’eredità artistica del passato e il presente, emergono alcuni dei temi cari al regista di Akron, azzeccati come non mai: la necessità di saper cogliere l’imprevisto, l’importanza dell’incontro fortuito, che illumina connessioni al di là di ogni barriera, linguistica, culturale, generazionale.

Chiara C.Alice C.Edoardo P.Eugenio D.Giusy P.Ilaria D.Michele B.Sara M.Thomas M.
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