Come da titolo, Creep di Patrick Bryce si prefigge di dare i brividi. Ci riesce, con pochissimi mezzi; lo fa puntando più sull’inquietudine che sull’effettivo spavento; non raggiunge elevate temperature d’emozione, ma funziona nella propria combustione lenta, con la scaltra aggiunta di una miriade di depistaggi e di un paio di colpi di scena ben assestati.

FUNNY TAKES – Guadagnare mille dollari per otto ore di lavoro: l’offerta è succulenta e Aaron (il regista Bryce) l’accetta. La performance non è meglio identificata, ma s’intende che sia roba da cameraman. Raggiunto il “set” dell’incontro – e delle misteriose riprese – il committente Josef (il co-sceneggiatore Mark Duplass) rivela di essere un malato terminale che avrebbe intenzione di lasciare una sorta di video-diario al figlio nascituro. Il compitino procede, ma Josef sembra nascondere qualcosa. Il suo atteggiamento, con umorismo fuori luogo e ogni sorta di stralunatezza, turba l’operatore, costringendolo a drastiche contromisure.

NIENTE PAURACreep è un film da prendere o lasciare: bisogna rassegnarsi al fatto che, in stile Paranormal Activity, anche in questo found footage a budget miserevole non accada sostanzialmente nulla di eclatante, prendendosi in cambio il raccapriccio costruito “per parole” che sfocia in un mind game snervante; bisogna accettare l’assenza di picchi veramente orrendi, lasciandosi risarcire dal brivido della manipolazione psicologica, dall’andamento paranoide, dagli abissi del disagio. La paranoia, insomma, più che il paranormale. Si tratta, anzi, di uno dei pochi film in questo formato in cui la mancanza di eventi significativi – almeno nella prima parte – viene volta in maniera positiva per lo spettatore: le false piste sono così irritanti da mantenere la tensione elevata, poiché poco succede, ma tutto sembra sul punto di succedere.

UM(U)ORI – Soprattutto, a differenza di altri insipidi found footage, Creep è un film che per la peculiare struttura – in sostanza, un duetto tra i due protagonisti – interessa per i personaggi mostrati, anziché per il tumulto degli eventi. In questo senso, l’equilibrio si regge nel bene e vacilla nel male proprio sugli umori di Duplass interprete: a volte posatamente ambiguo, altre troppo scopertamente eccitabile, non è di quei villain che affascinano per cattiveria, ma prova a imprimersi nella memoria per morbosità. Il risultato finale, appunto, è più bizzarro che indimenticabile, ma sempre meglio dei tanti bidoni che arrivano nelle sale zeppi di asinerie e crepe.

Antonio M.
7