Venezia 73 si è conclusa con un palmarès che, oltre ad avere aperto una querelle sul vincitore Lav Diaz, ha sorpreso anche per un film sorprendentemente escluso e per un altro che, al contrario, si è portato inaspettatamente a casa un premio. Stiamo parlando rispettivamente di Une vie di Stéphane Brizé e di The Bad Batch di Ana Lily Amirpour, vincitore del premio speciale della giuria. I due film, nella loro totale diversità, hanno anche in comune il fatto di avere un’eroina come protagonista.

Une vie ha riscosso il favore e l’endorsement di molti critici e addetti ai lavori, cosa che ribadisce la regola per la quale le strade della critica e quelle delle giurie internazionali raramente si incrociano. Il film di Stéphane Brizé è tratto dall’omonimo romanzo d’esordio di Guy de Maupassant, pubblicato nel 1883, e racconta la travagliata e sofferta esistenza della giovane aristocratica Jeanna. Il regista si smarca dalla tradizionale ed elegante densità tipica dei romanzi dell’Ottocento, giocando quasi per sottrazione e raffreddando la materia. La narrazione efficacemente ellittica ed essenziale, la fotografia realista in cui dominano i toni freddi e/o monocromatici, la regia posata e, soprattutto, la scelta del 4:3, che diventa metafora dell’impossibilità di fuga dell’eroina, sono gli strumenti con cui il regista sottolinea la condizione di crisi e d’angoscia della protagonista, tratteggiando così un bel ritratto di donna orgogliosamente vittima dei suoi tempi. È un film che, sotto la scorza di freddezza immediata, in realtà crea un’empatia e un coinvolgimento che crescono durante la visione e, soprattutto, nelle ore e nei giorni successivi.

Il premio speciale della giuria The Bad Batch di Ana Lily Amirpour è stato invece forse una delle maggiori delusioni del concorso; non perché sia stato il film in assoluto peggiore, ma perché la regista si è cimentata nella disciplina del passo del gambero facendo parecchi passi indietro rispetto al suo A Girl Walks Home Alone at Night, a tratti ottimo esordio. È come se i difetti e le ingenuità che facevano capolino nell’opera prima – una certa stilizzazione su tutti, ma anche un debito troppo evidente verso certi modelli di riferimento – fossero stati ingigantiti, diventando la chiave di volta del film. Ne esce così una dimostrazione, a tratti pure un po’ arrogante, di incontrollata regia muscolare, tamarra e fumettistica, che non coglie nessuno degli obiettivi preposti, né a livello di puro intrattenimento, né come rilettura del genere (un po’ horror, un po’ grottesco e un po’ distopia), né come valore metaforico. Pur con qualche isolata sequenza che testimonia un certo innegabile talento visivo e dopo una promettente partenza, neanche troppo alla lunga il film diventa prolisso e acquisisce il sapore dell’occasione gettata.