Paul McCartney, la leggenda, l’unico membro vivente dei Beatles tutt’ora in attività, si è esibito lo scorso martedì 25 giugno all’Arena di Verona. Unica tappa italiana del tour del 2013 Out There!, l’anfiteatro d’epoca romana della città scaligera si è rivelato l’ambiente ideale per accogliere in maniera degna Sir Paul; il quale, a sua volta, ha ripagato i fan con un concerto straordinario.

Con un’Arena gremita fino all’ultimo posto a sedere da un pubblico vasto e decisamente eterogeneo – spaziando dai consueti ultrasessantenni, fan della prima ora, alle famiglie nelle quali si riuniscono più generazioni, fino a tanti ragazzi e ragazze, pronti a vivere le emozioni dei loro coetanei di cinquant’anni fa – e condizioni climatiche tutt’altro che estive – un vento freddo che ha portato sul cielo aperto antistante l’anfiteatro minacciosi nuvoloni neri – Paul McCartney fa il suo ingresso sul palco, basso al collo, cantando la beatlesiana Eight Days A Week, e viene accolto da un’ovazione. Lui saluta ed entra subito in sintonia con il pubblico: “Stasera parlerò un po’ di italiano”. Ed è amore a prima vista.

Egregiamente accompagnato dalla sua attuale band, composta da professionisti di grande valore – i chitarristi Rusty Anderson e Brian Ray, il tastierista Paul Wickens e il batterista Abe Laboriel jr – McCartney dà fondo a tutte le sue energie di settantunenne, esibendosi in un grandioso show di circa tre ore ininterrotte, per un totale di 36 canzoni. A farla da padrone, i Beatles: 24 pezzi della scaletta risalgono, infatti, al periodo in cui Paul faceva parte del quartetto di Liverpool, e alcuni di questi – oltre al primo, Eight Days A Week, anche Your Mother Should Know, All Together Now, Lovely Rita e Being For The Benefit Of Mr. Kite (gli ultimi due tratti dall’LP Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band) – non erano mai stati suonati dal vivo.

Senza nulla togliere alle pur ottime canzoni del periodo Wings, impreziosite in questo caso da virtuosistici assoli di chitarra di Anderson e Ray, è ancora nel segno dei Fab Four che Paul incanta e manda in delirio il pubblico: come quando intona al basso All My Loving, e sul megaschermo alle sue spalle vengono proiettate immagini dei Beatles, giovanissimi e ancora imberbi, o imbraccia la chitarra elettrica e attacca Paperback Writer, o canta accompagnandosi al pianoforte la melodica The Long And Winding Road, per poi tornare al basso con il rock di We Can Work It Out.

Non mancano, nel corso dell’esibizione, momenti romantici, dedicati agli amori del presente (My Valentine, per l’attuale consorte Nancy) e del passato (Maybe I’m Amazed, per la seconda moglie Linda, morta di cancro nel 1998); né viene negato il ricordo degli altri due Beatles, tragicamente scomparsi, prima con una toccante Here Today dedicata a John Lennon – con Paul che guarda in cielo, dice “I love you” e invita il pubblico ad alzarsi in piedi per John – poi con un’altrettanto struggente Something, cavallo di battaglia di George Harrison, suonata nella prima parte all’ukulele, mentre sullo schermo scorrono le immagini dell’amico.

Da vero showman, McCartney non si risparmia, passando con l’energia di un ragazzino dalla chitarra acustica di And I Love Her al piano di Lady Madonna, dalla malinconica Eleanor Rigby alla scatenata Back In The USSR (durante la quale, a sorpresa, appare in sottofondo la scritta Free Pussy Riot), dall’allegria di Band On The Run alla riflessione quasi mistica di Let It Be, fino a invadere letteralmente il palcoscenico di esplosioni pirotecniche (rischiando di finire soffocato dal fumo) durante Live And Let Die. Il meglio, però, lo raggiunge quando fa cantare il pubblico, prima con la fresca Ob-La-Di Ob-La-Da, poi con l’ultraclassica, intramontabile Hey Jude, che chiude la scaletta ufficiale, con migliaia di fan in piedi in delirio: segno dei tempi, in parecchi non dondolano le braccia come il ritmo della ballata suggerirebbe, avendo le mani occupate a riprendere la sequenza con lo smartphone, con un effetto paragonabile a quello di tanti lumini accesi nel buio.

Alla fine del concerto, con il pubblico che continua a intonare il ritornello di Hey Jude, arrivano prontamente i bis, con Sir Paul che si ripresenta stoico sul palco sventolando la bandiera italiana per ricambiare la calorosa accoglienza ricevuta (mentre il tastierista Paul Wickens fa altrettanto con quella britannica): prima Day Tripper e Get Back, poi uno straordinario trittico composto dalla nostalgica Yesterday, dall’hard-rock di Helter Skelter e dal medley finale di Abbey Road (Golden SlumbersCarry That WeightThe End), più che degna conclusione di uno spettacolo di altissimo livello, un viaggio irripetibile in cinquant’anni di storia della musica e la dimostrazione che il fascino dei Beatles, ancora perfettamente incarnati dal solo Paul McCartney, non ha età.

Continua a errare su Facebook e Twitter per essere sempre aggiornato sulle recensioni e gli articoli del sito.