Il teatro è giunto nel carcere, il teatro-prigione è sceso nelle strade e nelle piazze di Volterra, la città e il carcere tornano a teatro grazie a Mercuzio non vuole morire. Questo l’excursus tracciato dai pannelli fotografici dei palazzi di pietra di Volterra presenti sul palcoscenico del Palladium. In scena, o meglio fra la gente in sala, confuse in mezzo al pubblico, ci sono le associazioni, le piccole ballerine della scuola Blueagles, la comunità della Garbatella e c’è la compagnia della Fortezza di Armando Punzo, da venticinque anni impegnato a fare teatro con gli attori detenuti nel carcere di Volterra.

Lo spettatore viene subito sfidato a duello dal giullare Mercuzio, che lancia il suo guanto di sfida in opposizione a quello rosso sangue del corteo dei vecchi, dell’ “ira protratta”, delle nostre stesse mani che quotidianamente uccidono la bellezza, la poesia, la vita. Mercuzio, prematuramente assassinato da un padre codardo, lo Shakespeare che preferisce cantare l’amore lamentoso di due adolescenti, rivendica il proprio diritto a vivere, scuote il sonno che è anestesia al dolore, allo squarcio che l’arte produce in ognuno e domanda allo spettatore: “Ma come fai a dormire?”.

“Padre vigliacco! Senza cuore! Senza coraggio!” grida Mercuzio, questo genio alato portatore di quell’insostenibile leggerezza che non è frivolezza, non è superficialità, ma è pesantezza nel senso di sostanza, di verità. Sono i duellanti come Tebaldo a essere inconsistenti, non leggeri, ma pesanti come una zucca vuota. Tebaldo, un Aniello Arena eclissato dall’eccessivo protagonismo di Punzo sul resto della compagnia, può solo trasformarsi nel clown pavoneggiante di se stesso che ha dimenticato le battute da spaccone sfrontato. Tanti i pagliacci in scena e le modalità di coinvolgimento del pubblico si avvicinano felicemente al Circo, alla Street Art, perché è in strada, fra la gente che lo spettacolo ha preso forma.

“Rifiutate la morte, il sangue! Sfilatevi il guanto rosso!”, sembra incitare Mercuzio “e impugnate i vostri libri, innalzateli!”. Forse solo in questa gestualità un po’ ingenua, ma ingenua perché simbolica, perché rituale, riscontriamo una caduta. Sul palcoscenico e in sala il trionfo dell’arte non è completo: sono mausolei a venire innalzati, sono cadaveri. O meglio, le parole stampate (morte), le immagini mute dei quadri, delle foto, i colori secchi sulle tele sono condannati al silenzio della quotidianità, dell’oblio se non vengono rinnovati, attualizzati, fatti vivere ogni giorno, come reclama Mercuzio, come solo il teatro vero, quello che è vita, pane quotidiano per tutti può fare.

Scritto da Vera Santillo.

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