Un album degli Wilco è sempre un piccolo grande evento. Sì  perché, nonostante i capolavori siano ormai alle spalle (“Yankee Hotel Foxtrot” del 2002, “A Ghost is born” del 2004), ci troviamo probabilmente di fronte alla più grande rock band americana degli ultimi 15 anni. Una delle poche nel panorama attuale ad avere un seguito stabile come nel rock “di una volta”, dove l’attualità si contraddistingue per meteore che durano giusto lo spazio di due minuti su Youtube.

Classico non è forse l’aggettivo migliore per definire lo stile della band di Chicago che, partita dall’alt-country, ha poi saputo inserire sperimentalismi assortiti, complice soprattutto la passata collaborazione con Jim O’Rourke e l’ingresso in formazione del chitarrista d’avanguardia Nels Cline. Gli ultimi album ci hanno regalato in ogni caso una maggiore stabilità nella line-up, e sonorità più pacate, quasi senza tempo.  Con questo “The Whole Love” si prosegue sul sentiero intrapreso nel 2007 con “Sky Blue Sky”, senza per questo rinunciare a prendersi qualche piccolo rischio. Ne è prova la traccia d’apertura Art of almost in grado di coniugare sonorità kraut  ed elettroniche e deflagrare quindi in una coda rumorista, cosa che diresti degna di un album dei Radiohead.

Il resto del programma è per contro più standard, senza però scivolare nel tedioso o nel banale: a fare la differenza, infatti,  sono ancora una volta gli arrangiamenti che regalano anche ai pezzi più semplici e diretti quelle sfumature in grado di elevarli rispetto alla media.

Si passa così dall’incedere pop di I might, contraddistinta da un petulante organetto che ricorda i 60s più spensierati, alla ballata intimista Sunloathe, in cui la band risale la corrente del proprio passato fino a Summerteeth. Dawned on me risulta fin dal primo ascolto spensierata, con un fischiettio che fa decisamente Andrew Bird, laddove Standing o si contraddistingue per un piacevole ritmo boogie.

Difficile in generale trovare delle cadute, passando dalla kinkisiana title-track alla lunga e malinconica chiusa di One Sunday morning attraverso un lavoro che distilla power-pop e country-folk e riesce ancora una volta a raccontarci delle schegge e degli avanzi dell’american dream come accadeva nell’epocale Ashes of american flag di qualche anno fa.

Anche in un album che i detrattori potrebbero definire di mestiere, il cuore e la passione sono sempre ben presenti. Perché la musica degli Wilco, in fondo, è la nostra vita, con le sue cadute, la poesia della sconfitta e gli sprazzi di gioia che si fanno largo come raggi di sole nel cielo dell’esistenza.

Scritto da Fabio Plodari.

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