Pubblicato nel gennaio 2011, Rogue è – volendo utilizzare un eufemismo -un disco di cui non si sta dibattendo molto sul web o nella riviste specializzate, ma che sarebbe errore grave non prendere considerazione, pur nell’attuale bulimico panorama musicale.

Eppure, non fosse stato per il fidato amico giornalista (che l’ha…ehm…scartato) non sarebbe mai giunto sul mio stereo: è per porre quindi riparo a questa piccola ingiustizia che scrivo queste righe.

Cos’ha, in sostanza, che non va l’lp dei Bored Man Overboard? In realtà, proprio nulla.  Disco d’esordio per il settetto di Stoccolma (che segue un ep datato 2009), Rogue colpisce fin dal primo ascolto per il notevole livello qualitativo delle sue composizioni. I brani, per capirci, si posizionano decisamente in territori The National e, a onor del vero, reggono ottimamente il confronto con High Violet, ultimo grande disco della band di Cincinnati.

Le atmosfere che avvolgono fin dal principio sono decisamente malinconiche e decadenti, senza peraltro scadere mai nel monocorde: merito soprattutto dei notevoli arrangiamenti, impreziositi da innesti di tromba e violino capaci di conferire sfumature e un innegabile tocco di classe.

Come si diceva, è ovviamente il gruppo di Matt Berninger e dei gemelli Dessner a rappresentare il principale riferimento stilistico, nel mentre ci si abbandona ai 49 minuti dell’album. Nondimeno, il ben riuscito cocktail degli svedesi aggiunge altri umori non dissimili: le ballate crepuscolari degli Arcade Fire , lo Springsteen più notturno e una voce che, in più passaggi, ricorda Tom Smith degli Editors (e quindi Ian Curtis).

Scorrono pertanto sullo stereo una “Abigail” che è sin da subito un viaggio al termine della notte, l’incedere waveggiante di “Wealth & Cry” e la meditativa “Vanishing slow”. Da ko il finale di programma: ad una “Stopping by woods” che va a recuperare un certo mood alla Yo La Tengo di And then nothing turned itself inside-out (ricordate la eloquente copertina?), fa seguito la cavalcata dalle venature dark “Sinner song” e, infine, il post-sbronza ammaliante e introspettivo “Wine”, piccolo capolavoro a suggello di un lavoro decisamente sorprendente.

C’è un uomo annoiato in mare: se non volete gettargli il salvagente, fategli almeno compagnia.

Scritto da Fabio Plodari.

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