La storia della principessa splendente: la recensione
Come noto lo Studio Ghibli, di cui Isao Takahata è cofondatore, ha annunciato una pausa dal cinema. Se anche questa pausa dovesse trasformarsi in un congedo del regista dal grande schermo, La storia della principessa splendente costituirebbe comunque, insieme a Si alza il vento del sodale Hayao Miyazaki, il perfetto testamento spirituale e artistico di uno Studio che ha fatto la storia dell’animazione.
Takahata traspone, con alcune licenze, la più antica opera di narrativa giapponese a noi pervenuta (IX secolo), il Taketori monogatari, storia di una piccola principessa trovata in un gambo di bambù, cresciuta con amore dai genitori adottivi nel Giappone rurale e poi portata nella capitale per condurre la vita a cui secondo il padre era destinata sin dalla nascita, quella da nobile damigella. Una storia narrata con linearità e con i moduli della fiaba (la principessa cresce a vista d’occhio), nella quale a una prima parte gioiosa, ricca di quel senso di armonia con la natura che ha spesso caratterizzato la Ghibli, si contrappone una seconda più cupa. La pacata malinconia e la mancanza di un finale conciliatorio trasformano infatti questa favola in un maturo racconto di perdita e fiera rassegnazione, basato sul dualismo centrale di tanta arte giapponese, quello tra giri e ninjō, dovere e passione. La principessa, divisa tra la sua origine divina e l’amore per la Terra, accetta la vita scelta per lei dal padre, cercando invano di reprimere i propri desideri per non tradire le speranze chi l’ha cresciuta, in una parabola che abbiamo imparato a conoscere dalle tante eroine sfortunate di Kenji Mizoguchi. L’apice espressivo, assieme al commovente finale, viene raggiunto nella straordinaria sequenza della fuga della principessa dal banchetto, nella quale la sua figura si trasforma in linee cinetiche di rabbia e dolore mentre, correndo verso la luna e l’orizzonte, si spoglia di tutto: abiti, memoria e convenzioni sociali.
Queste tematiche vengono sublimate da un segno grafico unico nell’animazione contemporanea, testimonianza di una ricerca stilistica profonda e personalissima, lontana dalle logiche di mercato. Un’animazione che si inserisce però anche nella scia della tradizione pittorica giapponese, con quello stile a inchiostro e acquerelli che caratterizza le decorazioni di paraventi e shōji, ricollegandosi direttamente – come esplicitato in una sequenza – agli emakimono, rotoli di narrativa illustrata tipici dell’XI-XII secolo.
Giocando di sottrazione e arrivando in alcuni casi alla pura stilizzazione, Takahata infonde in ogni fotogramma lirismo e poesia, riuscendo al tempo stesso a far emergere con forza l’emotività dei personaggi, mentre le note di Joe Hisaishi elevano il film alla dimensione del mito. La miracolosa armonia di colore, tratto e animazione produce così nello spettatore sincera meraviglia, trasformando La storia della principessa splendente in uno di quei rarissimi film – d’animazione e non – che hanno il potere di riconciliare con il cinema.
Eugenio D. | ||
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