Frankenweenie segna il ritorno di Tim Burton al cinema di animazione, sette anni dopo il successo de La sposa cadavere. Basato sull’omonimo cortometraggio in live action da lui stesso realizzato nel 1984 ed uscito nelle sale italiane assieme a Nightmare Before Christmas, narra la storia del piccolo Victor, deciso a riportare in vita il suo cane defunto, con un esperimento dalle conseguenze orrorifiche.

Progettato fin dalla prima versione come film in stop motion, ma realizzato in live action per mancanza di risorse, Frankenweenie arriva finalmente sullo schermo così come era stato pensato originariamente dallo stesso regista, che attinge a piene mani dal suo immaginario personale: il ragazzino di Burbank, cresciuto all’ombra della Disney, un po’ Vincent un po’ Victor, riscopre il piacere di dar vita ai pupazzi, quelle strane creature che da sempre lo hanno affascinato e che, oggi come ieri, sembrano provenire da un lontano passato.

Restando fedelissimo al cortometraggio originale – non a caso, numerose sono le inquadrature e i movimenti di macchina identici – Burton si concentra sulla caratterizzazione, visiva e psicologica, dei personaggi, e sul gioco di rimandi e citazioni, qui davvero minuziose, che sembra stargli a cuore da sempre. Dai mostri classici della Universal ai gamberetti da acquario Sea Monkeys, dal cagnolino Family Dog alla “Bambina che fissava” da lui stesso ideata per il libro Morte malinconica del bambino ostrica, tutto parla di Tim Burton e per bocca di Tim Burton. Il tuffo nel passato comprende una tecnica di animazione volutamente imperfetta e artigianale, con personaggi incredibilmente materici che strizzano l’occhio a Ray Harryhausen e ai pionieri del passo uno, tanto lontani dalla pulizia dei moderni film, ma non per questo meno riusciti. Incorona il tutto uno splendido bianco e nero, degno della migliore tradizione espressionista tedesca, e funzionale alla buona riuscita dell’opera.

Affidandosi al consueto cast tecnico – la sceneggiatura è di John August, la colonna sonora del maestro Danny Elfman – il regista confeziona una vicenda tanto semplice e alla portata di tutti, quanto solida. Banale solo in apparenza, la narrazione si sofferma su temi da sempre cari al regista, come l’accettazione del diverso, le difficoltà di chi è anti-eroe nell’animo, i drammi degli eterni fenomeni da baraccone, accanto a quelli, più classici, dell’amicizia e della solidarietà. La purezza infantile è, come di consueto, contrapposta all’arido cinismo degli adulti, incapaci di sradicarsi da vecchi concetti e forti delle loro finte verità, uomini-bestia inconsci della loro mostruosa natura. Fra tutti, sembra salvarsi solo l’enigmatico Mr. Rzykruski, l’inquietante professore di scienze, cui il regista offre le sembianze del suo mito di gioventù Vincent Price e che nella versione originale è doppiato da Martin Landau, indimenticabile Bela Lugosi di Ed Wood.

Il finale, tipicamente burtoniano, suggella la definitiva unione fra due mondi, quello dei vivi e quello dei morti, universalmente ritenuti opposti; la frattura è quindi sanata e permette al lieto fine di trionfare anche nella piccola ed ipocrita periferia, che tanto ricorda quella di Edward mani di forbice, con tutta l’amarezza che ne consegue. Riappropriandosi degli strumenti del passato, Tim Burton dimostra come sia ancora possibile affascinare il pubblico e, ancora più importante, come il suo stile sia tornato quello delle origini, quel misterioso modo di raccontare i freaks.

Scritto da Leonardo Ligustri.

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