The Lego Movie è il film che i numerosissimi appassionati del gioco di costruzioni prodotto in Danimarca da più di ottant’anni potrebbero erigere a proprio manifesto culturale e filosofico. Non solo perché è ambientato in un universo interamente costruito con mattoncini Lego, ma soprattutto perché, nella regia di Phil Lord e Christopher Miller (la stessa accoppiata responsabile di Piovono polpette), viene concesso libero sfogo a tutta la creatività che quel gioco incoraggia e rappresenta, con autentici scenari e minifigures di plastica animati in stop motion alternati a sequenze in grafica digitale, ma senza apparente soluzione di continuità.

Protagonista è Emmet, il classico omino giallo Lego, anonimo e privo di personalità, se non come parte di quel tutto che è il suo mondo di mattoncini, nel quale si muove soltanto seguendo le istruzioni. Quando, accidentalmente, viene in possesso di uno strano oggetto conosciuto come “il pezzo forte”, viene scambiato da un gruppo di ribelli per “quello speciale”, l’eroe che salverà tutti da un tiranno che intende distruggere il mondo con un’arma micidiale.

Come nell’ottimo dittico di Piovono polpette, i due sceneggiatori utilizzano una trama grottesca e un’ambientazione surreale per dar voce a un cinema dallo spirito anarcoide: il film è infatti incentrato sulla presa di coscienza di un individuo che vive all’interno di una società omologante, decisa a soffocare il pensiero individuale attraverso una serie di regole prestabilite. Dietro all’evidente parodia del classico schema narrativo di molto cinema fantasy (su tutti, le saghe tolkieniane), che ripropone i personaggi-cliché dell’inetto che si trasforma in eroe, del vecchio e saggio mentore, dell’eroina sexy e cazzuta e del tiranno megalomane (doppiati rispettivamente, nell’edizione originale, da Chris Pratt, Morgan Freeman, Elizabeth Banks e un Will Ferrell che appare anche in versione live action), il film affronta temi tutt’altro che frivoli: soprattutto nel sorprendente colpo di scena finale, di natura metacinematografica, l’uso intelligente e al di fuori degli schemi dei mattoncini Lego diventa una metafora della fantasia e della creatività stesse, che vengono troppo spesso tarpate e inaridite da regole ottuse e inadeguate. Nonostante la serie infinita di gag che riempiono la vicenda, giocate in massima parte sulla mutevole fisicità di un universo a incastro (in cui tutto, compresa l’acqua, è fatto di mattoncini), con una passerella nostalgica e citazionista (anche se abbastanza frettolosa) di quasi tutti i temi Lego (Castello, Spazio, Pirati, Wild West), compresi i franchise cinematografici e fumettistici (fra i quali spicca un Batman veramente spassoso), è proprio in questo inno alla fantasia che il film trova la capacità di superare la comicità demenziale per approdare a un cinema registicamente e narrativamente più complesso, con una morale edificante, tipicamente hollywoodiana, indirizzata principalmente ai bambini e ai loro genitori (soprattutto a questi ultimi); ma distaccandosi così, allo stesso tempo, dalla genialità pura, imprevedibile e, quella sì, totalmente anarchica del modello cinematograficamente più vicino, il francese Panico al villaggio di Vincent Patar e Stéphane Aubier.

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Sara M.
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