AltrodiGualtiero Bertoldi,25 maggio 2013
Eastern Promises – Branded to kill: la recensione
Carissimi Erranti, apriamo con poche righe ma con grande piacere questa nuova rubrica dedicata al cinema asiatico tout court, che ci accompagnerà da oggi in poi con cadenza inizialmente mensile. Aspettatevi quindi, sull’ottima traccia già segnata da Privet, Kino! per il cinema russo e sovietico, una serie di recensioni, retrospettive e informazioni sulle forme assunte dalla settima arte nel più o meno lontano Oriente.
Koroshi no Rakuin – Branded to Kill
Distribuito in Italia alternativamente con i titoli La farfalla sul mirino e Il marchio dell’assassino, Koroshi no Rakuin a prima vista potrebbe sembrare un generico yakuza movie, infarcito da qualche scena di nudo strategico e da una serie più o meno stramba di duelli e scontri risolti a pistolettate e inquadrature sghembe.
Il film fu diretto nel 1967 dal fino ad allora prolificissimo Seijun Suzuki, per conto della Nikkatsu, la più antica casa di produzione cinematografica giapponese, la quale attraversò, essendone anche motore principale, tutte le maggiori ondate filmico-pop del Sol Levante del XX secolo (fino al 1993, anno in cui dichiarò bancarotta): film con samurai, yakuza, pinku eiga (meglio noti da noi come semplicemente “pink”) – qualsiasi sia il genere a bassissimo budget e ad alto tasso erotico o di violenza al quale potreste pensare, la Nikkatsu ne ha sfornato diverse centinaia per tipo. In mezzo a questo tritacarne spettacolare non è però raro imbattersi in cineasti capaci e geniali, che hanno fatto delle strettissime direttive di produzione – budget limitato, giorni contati (di solito dalla Nikkatsu non venivano concessi più di 30 giorni per scrivere, dirigere e montare un’intera opera), restrizioni sullo stile e gli attori da impiegare – molteplici e sorprendenti virtù.
Se quindi Koroshi no Rakuin nasce come una sorta di yakuza exploitation nel quale lo spettatore segue le vicende di Hanada, presentato come il killer n.3 in Giappone, fra assassinii e complotti di vario genere, amorazzi assortiti e una quasi comica scalata alla posizione numero 1, ecco che però registicamente l’opera si rivela come un pastiche di generi storici, artistici e visivi differenti, nella quale gli elementi surreali (l’insistita presenza delle farfalle, il continuo rimando da una parte all’acqua, e dall’altra al calore, al fuoco e alle ustioni, o la più semplice quanto all’apparenza stramba passione-ossessione per l’odore del riso bollito nutrita dal protagonista) vengono armonizzati ai tratti del genere (la femme fatale, il duro che va in pezzi, il tradimento) in chiave parodica. L’inventiva di Suzuki, che riverbera anche nei forti chiaroscuri della fotografia in bianco e nero, si incarna alla perfezione nell’attonito volto del protagonista, un Joe Shishido che negli anni precedenti aveva consolidato la propria carriera come “cattivo” in altri prodotti Nikkatsu, e che qui invece interpreta un eroe quasi sempre in trance, sballottato dagli eventi così come dall’estenuante tentativo di conquistare la prima posizione nella classifica dei killer giapponesi (il tutto è reso ancor più straniante dagli zigomi grotteschi di Shishido, il quale si era realmente sottoposto a interventi di chirurgia facciale per ingrandirli e allargarli).
L’opera, che avanza per ellissi narrative molto forti, con duelli sempre più efferati e sanguinosi, raggiunge la sua apoteosi finale nello scontro fra Hanada e il killer n.1 del Giappone, combattimento che assume i contorni della convivenza forzata (il n.1 infatti si ammanetta a Hanada e vive assieme a lui alcuni giorni, prima di dar via al confronto finale); una simbiosi di vecchie belve che si odiano ma la cui esistenza è possibile e definita solo dalla presenza dell’altro (metafora non tanto coperta del rapporto fra il regista e Kyusaku Hori, l’allora presidente della Nikkatsu, che aveva in precedenza avuto parole di dura e ingenerosa critica nei confronti di Suzuki).
Un film che si attanaglia allo spettatore, e che ne invade inesorabilmente la parte conscia e soprattutto onirica, come ogni buona opera che gioca sui confini dell’assurdo dovrebbe saper fare.
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