Errando nella virtualità, e soprattutto nelle sue brecce entro il patrimonio storico-artistico, abbiamo appreso con interesse di come Google Maps, tramite Street View, abbia “colonizzato” alcuni siti, rendendone possibili visite virtuali. L’ultimo avamposto di questa mappatura è stato tracciato lo scorso 23 aprile, data a partire dalla quale le ville del Palladio sono state inserite nel sistema ad alta definizione. Vanno ad aggiungersi ad altri pezzi forti del Patrimonio Unesco (come gli scavi di Paestum, il Parco Archeologico di Velia, le Residenze Sabaude e la Val D’Orcia), entro un’iniziativa che coinvolge altri 13 Paesi, con immagini panoramiche su Google Street View che vanno dall’Antartide al Gran Canyon.

Non vorremmo, tuttavia, che questo virtual-party in villa risultasse un fiasco (Palladio chi è? Il padrone di casa? – si chiederanno alcuni convitati). È un po’ come per i musei: possono essere aperti, ma ciò non vuol dire che vengano visitati. Sicché con questa iniziativa, ci si annota sul block notes – anche in formato .txt – l’elenco delle ville del geniale architetto veneto: Villa Pisani Bonetti, Villa Godi Malinverni, Villa Valmarana Bressan, Villa Foscarini Cornaro, Foresteria Serego Alighieri, Villa Emo, Villa Fracanzan Piovene, Villa Godi Piovene, Villa Barbaro di Maser, Villa Badoer e la famosa – Villa Almerico Capra, detta «La Rotonda». Poi, però, la sensazione è che questa nota venga archiviata in qualche scaffale ignoto, accanto alle Guide del Touring Club o ai prodotti di editoria “turistica” in formato souvenir; o anche solo sul desktop, con tanto di wallpaper.

L’azione di Google, cioè, è stata spettacolare: se vogliamo, è un cinema del silenzio, con tanto di cassetta d’attrezzi del cameraman e supervisione di regia. Le immagini all’interno delle ville sono state infatti realizzate grazie ai “trike”, dei tricicli che si portano dietro una macchina fotografica in grado di realizzare foto a 360 gradi con uno scatto ogni due secondi (vedi foto in alto a sinistra). Come molti happening, specie di quelli che rimano con marketing, sarebbe spiacevole se il risultato fosse, ancora una volta, quello dell’arte che non c’è, dell’arte che sparisce, dell’arte che non viene vista, dell’happy hour che dura un’ora: un paradosso, per quella che la Multinazionale designa come un supporto all’esplorazione, con lo scopo di rendere “più accessibili anche gli angoli più nascosti e affascinanti del pianeta”.

Lo diciamo per una semplice ragione: l’accessibilità non si risolve nella possibilità, ossia nell’invito, ma anche nella propulsione a far accettare l’invito, mettendo nelle condizioni di poterlo intendere ed apprezzare. Con la cultura come fatto di elite, non si può pretendere che l’operaio impegnato a sopravvivere sia interessato ai biglietti del Rigoletto. Molti siti italiani sono accessibili, ma vuoti: è verosimile che le famiglie abbiano altro a cui pensare che ai nostri beni, in un contesto che raramente li pone sotto i riflettori nel loro valore di “civiltà”; in quello dei tour operator, invece, non mancheranno di essere elogiati con tanto di foto ad alta risoluzione in preview.

Le ville del Palladio possono dunque essere visi(ta)bili, ma non è detto che vengano vis(ita)te. Certo, non spetta a Google avere a cuore il problema della valorizzazione e della promozione, nonostante la facciata “democratica”, se non filantropica: né si può dar torto all’Azienda, rispetto ai suoi fini ultimi, immaginerete quali. Sarebbe però interessante se chi di dovere, in Italia, traesse partito da queste circostanze per approfondire la riflessione sul concetto di “accessibilità” e soprattutto valutasse come i “tools” esistono, ma non possono restare sempre nella cassetta degli attrezzi. Sarebbe così indecorosamente laborioso ed utopistico pensare a un approccio “sistemico”, almeno su scala regionale, che annoveri la visita effettiva, fisica, alle ville del Palladio nel programma outdoor delle scuole venete, preceduta, magari, da una lezione digitale? Insano pensare di dare il “placet” istituzionale a lodevoli iniziative dal basso, come le cosiddette “invasioni digitali”, quelle sì un modo per “vedere” – fisicamente, e virtualmente – siti d’interesse culturale?

Quando un Ministero quale quello per i Beni e le Attività Culturali soffre di poco portafoglio, dovrebbe forse rivedere il proprio “portfolio”, ed attingere dalle competenze di cui dispone per avvantaggiare iniziative partecipate, sistemiche, concretamente agite sul territorio. Altrimenti, persi tra macrocazzate e microstrumenti, non ci resta che errare: con l’ennesima Spider, fiammante come il tramonto d’un panorama in cartolina virtuale, senza che nessuno ci indichi la mappa e ci aggiusti la strada. Illetterati in un marasma che ci chiamerebbe all’information literacy. Tanto valeva dare a Larry Page e Sergey Brin, inventori di Google, la delega al Ministero.

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