Da quasi quarant’anni Victoria Chaplin e Jean-Baptiste Thierrée portano in scena il loro circo nei teatri di tutto il mondo. Dopo Le Cirque BonjourLe Cirque Imaginaire, con Le Cirque Invisible (in scena al Duse di Bologna il 7 e l’8 dicembre) il duo approda a un circo del fantasmagorico e del meraviglioso che fonde illusionismo, clownerie, trasformismo, giocoleria e funambolismo e si serve della collaborazione di un gruppo di anatre indisciplinate e di alcuni conigli bianchi.

Per la maggior parte dello spettacolo, Victoria e Jean-Baptiste si alternano sul palco in brevi numeri solisti, più raramente interagiscono. La spartizione dei ruoli è evidente. Lui, capelli bianchi e aria stralunata, è il saltimbanco goffo, smargiasso e balordo, re dell’assurdo e del buffonesco. Lei, minuta, aggraziata e solenne, è l’acrobata astrale immersa nel regno della leggerezza onirica, la signora delle superfici, la fata capace di trasformare di continuo sé stessa e tutto ciò che tocca. Lui richiama alla mente i clown e i buffoni dalla corporeità esuberante del teatro di strada, del cabaret e del cinema muto. Lei è l’erede diretta dei saltimbanchi mercuriali del circo simbolista dell’Ottocento francese.

Lui è l’illusionista maldestro che si presenta sul palco vestito con abiti della stessa fantasia delle sue valigie o che abbandona a metà il numero della donna tagliata in due, è il contastorie dell’assurdo che improvvisa un teatrino comico con pesci di cartone colorato, il clown impacciato che si taglia un dito e lo smarrisce in mezzo a cumuli di carote, il fool ingoffito in un costume chiassoso che interpreta in playback “I pescatori di perle” di Bizet coadiuvato dai “pupazzi cantanti” cuciti a livello della sue ginocchia. Lei è la regina delle metamorfosi che dà vita a un sontuoso bestiario fantastico con abiti reversibili e piccoli oggetti del quotidiano, mettendo in comunicazione universi distanti tra loro: è la bambola oscura danzante su ruote invisibili che si trasforma in un enorme mollusco, la contessa dall’enorme gonna con guardinfante che diventa un cavallo educato, la viaggiatrice seduta al tavolino di un caffè che rinasce guerriera in sella a un ippogrifo, la virtuosa degli ombrelli di paglia rotanti che si muta in un pavone in amore.  Lei è anche la funambola che cammina leggera sulla corda mentre agita con una mano una stoffa bianca che sembra tremare nell’aria come una fiamma. Lei è infine la suonatrice fiabesca che percuote un cucchiaio sui bicchieri e i tegami fissati al suo abito con la stessa meccanicità di un giocattolo a molla.

Un circo dominato dal gusto per il meraviglioso quotidiano e dall’amore per l’artigianale, di grande purezza, precisione e cura per il dettaglio (che si riflette, oltre che sui ricchissimi costumi, anche sulle raffinate basi musicali che fanno da sfondo alle metamorfosi di Victoria). Un circo fuori moda e fuori dal tempo, che niente ha a che fare con gli spettacoli spesso triviali trasmessi in prima serata dalle nostre televisioni. Un circo che ritorna a quella che in fondo è la funzione primaria del circo: sottrarre gli oggetti e i corpi alle griglie della logica, dell’ordinario e dell’utile attraverso la comicità rovesciante dell’assurdo e la leggerezza liberatoria del sogno.

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