AltrodiBlogger Erranti,22 gennaio 2012
L’Avaro: la recensione
L’Avaro “remixato” da Marco Martinelli e dal suo Teatro delle Albe lo aspettavo. È uno di quegli appuntamenti da segnare sul calendario.
Che poi piaccia o meno: bisogna averlo visto perché sono poche, in Italia le compagnie sperimentali che se ne infischiano della tradizione, che tanto piace ai “ridotti argento” della platea, per imboccare strade più innovative.
Servono coraggio, carisma e originalità per raggiungere la giovane piccionaia e svecchiare un teatro spesso noioso e convenzionale.
Di coraggio Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, coppia nella vita ed eccezionale duo artistico, ne hanno da vendere. Diventati famosi per la carica rivoluzionaria delle loro messe in scena continuano tutt’oggi il loro percorso di ricerca controcorrente.
Coraggioso è il loro Avaro: nero nerissimo e cupo. La commedia, firmata da Moliére nel 1668, nella rilettura di Martinelli e nella traduzione di Cesare Garboli assume toni grotteschi. L’essenza malata e venale del testo viene attualizzata e trasposta nel contemporaneo alla maniera delle Albe. Ecco allora che il palcoscenico diventa un set televisivo con tanto di applausi e risate over; la piecè uno show sull’eterna dipendenza dell’uomo dal denaro e Arpagone una donna. E che donna una delle attrici più carismatiche e capaci del panorama italiano, un’ Ermanna Montanari (eccezionale nella caratterizzazione del proprio personaggio) che non si limita ad interpretare l’arcigno protagonista di Moliére ma giunge metonimicamente a raffigurare l’avarizia stessa.
Di contorno, un cabaret di personaggi insipidi sfidano la psicosi da accumulo del padre tiranno e cercano di impossessarsi della sua preziosa cassetta e dei diecimila scudi che contiene. Tra proposte di matrimonio, debiti e compromessi, giunge la rivelazione finale quando a luci accese il regista si rivolge al pubblico per svelare l’happy end.
Una conclusione che un po’ indispettisce (forse per questo gli applausi del Teatro Goldoni si rivelano timidi e sottotono) perché frantuma l’atmosfera sognante e visionaria che gli espressivi giochi di luci e di ombre (orchestrati con esperienza da Francesco Catacchio e Enrico Isola) , le melodie originali e azzeccate di Davide Sacco e lo spazio scenografico, essenziale ma d’impatto, curato da Edoardo Sanchi, erano riusciti a creare. Lo spettatore ripiomba disorientato nella realtà con la sensazione che qualcosa sia finito troppo presto.
Scritto da Micol Lorenzato
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