Uscito a fine settembre su Jagjaguwar, il sophmore album degli Women, quartetto di provenienza canadese (Calgary per la precisione), è disco solidissimo, forse non semplice al primo ascolto ma  comunque in grado di regalare alcune perle assolute da mandare in loop tanto in giornate invernali dal cielo bianco e vacuo quanto in momenti in cui s’aprono improvvisi raggi di sole.

Di solidità esecutiva non comune a tutti i gruppi e gruppetti indie della nuova schiera, gli Women dimostrano di aver ben imparato la lezione di mostri sacri quali Sonic Youth e Pavement e soprattutto dei sempre cari Velvet Underground sebben declinati ad un retrogusto tipicamente inglese.
È la voce del cantante Patrick Flegel che, caracollante al punto giusto, rimanda subito ad un altro nume tutelare di questo Public Strain, Syd Barret. Il Diamante Pazzo è presenza decisamente udibile tra le pieghe del disco e dona allo stesso quell’umore di psichedelica storta britannica a cavallo tra 60s e 70s.
Il disco si apre con l’ottima “Can’t you see”, che ci regala la voce del lead singer poggiante su rumorismi di sottofondo à la My Bloody Valentine, per poi scivolare nel post punk denso di qualità con “Heat distraction” e nell’incedere marziale della pur melodica “Narrow with the hall” (e siamo sempre in terra d’Albione).
La delicata e trasognata “Penal colony” costituisce uno dei momenti più intimi dell’opera laddove le rasoiate di “China steps” e “Drag open” ci trascinano nelle atmosfere malate della Grande Mela.
Il trittico finale è da capogiro; prima una deviata “Locust Valley” con tanto di coretti quindi una nuova ballata intimista come “Venice Lockjaw” .
Ma la vera gemma rimane la conclusiva “Eyesore”, pezzo a suo modo pop che mostra una melodia trascinante in grado di insinuarsi sempre più nella mente e capace di risolversi poi in una coda finale che -con arrangiamento meno lo-fi- definiresti uscita dalla penna degli Arcade Fire.
Il gioco dei rimandi e delle influenze potrebbe continuare per pagine ma quel che più conta è che non si tratta in questo caso di una riproposizione pedissequa di certi modelli bensì di una rielaborazione fatta decisamente con stile e gusto. E nonostante il blizzard della copertina e la fredda patina di superficie di queste undici composizioni c’è del fuoco che arde sotto.

Scritto da Fabio Plodari.

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