Questa recensione potrebbe iniziare con una breve sinossi di The Boy and the Beast – Bakemono no ko nella quale si potrebbe raccontare di come Ren, un piccolo orfano riottoso, credendosi abbandonato dal padre, decide di fuggire da casa e dalla tutela di una famiglia che già si intuisce grigia e oppressiva. In questa sua fuga finisce in una dimensione parallela, diventando il discepolo di Kumatetsu, una bestia antropomorfa che sta cercando l’ispirazione giusta per succedere al proprio maestro. Seguono avventure varie dei due, con dei ritorni fugaci di Ren alla dimensione umana e sua conseguente indecisione sul da farsi (restare nella dimensione animale e sostenere il proprio burbero maestro o ritornare fra gli umani e costruirsi una vita come tutti gli altri?). Data però l’attuale situazione sociopolitica italiana, il qui presente recensore desidera avvertire i potenziali lettori di diverse anomalie, del tutto devianti, camuffate dalla pellicola in oggetto come innocenti elementi di una qualsiasi favola moraleggiante: Ren, che all’inizio del film è un bimbo di nove anni, è adottato e cresciuto da un orso, un maiale e una scimmia – tutti maschi. ORRORE. La coprotagonista, una ragazza di buona famiglia tradizionale, è in realtà una ragazzina depressa che si sente morire dentro per la mancanza di interesse dei suoi genitori nei propri confronti. ANATEMA. Un altro essere umano, adottato da un maestro rivale di Kumatetsu, alla fine sbrocca rovinosamente e inizia a distruggere sia il mondo umano che quello fantastico-animale. ECCO VEDI.

E quindi prendiamoci un attimo, e pensiamo a come il film viva su questi fitti parallelismi fra situazioni esistenziali sovrapposte eppure apparentemente isolate, e come sia, in fin dei conti, una doppia storia di formazione nella quale interessarsi all’altro e sostenerlo a proprio modo sono i due fari da seguire nell’oscurità dell’esistenza. Pensiamo poi alla regia di Mamoru Hosoda (già autore dei bei The girl who leapt through time, Summer Wars e Wolf Children), ordinata e ligia alla chiarezza del racconto, che sfuma tutte le tensioni in una sorta di continua citazione ghibliana; giusto un paio di scene mostrano un guizzo che, vien da dire purtroppo, non è approfondito anche in altre parti. E concludiamo scrivendo che l’opera viaggia coscientemente su di una sorta di medietà senza sorprese, la quale ammalia con moderazione lo spettatore e lo cattura con gentilezza quel tanto che basta per fargli pure spuntare una soddisfacente lacrima nel finale.

A meno che non siate dei neobaluardi di una alquanto estemporanea ideologia culturale, nel qual caso continuate pure a inneggiare alle vostre idee su cosa sia o meno naturale, e lasciate liberi gli ingressi dei cinema (tanto, per quei due giorni in cui l’hanno proiettato…).

Gualtiero B.
6/7