Berlinale 2014: Kraftidioten e altre recensioni
Nei primi giorni, la sessantaquattresima edizione della Berlinale, oltre ai nomi che più attirano l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica di Von Trier, di Anderson e di Clooney, ha presentato, nella sua sterminata offerta, anche altre piccole perle per tutti i gusti: ciniche commedie, robuste opere di genere e zampate di vecchi maestri.
Partendo da nord, la Scandinavia offre (presentato nella selezione ufficiale) Kraftidioten del norvegese Hans Petter Molland, piccolo gioiello di dark humour e di cinismo, innestati in uno scheletro di sanguinosa tragedia familiare. Il titolo inglese è In Order of Disappareance, scelta significativa in quanto la narrazione segue e sottolinea, dividendo quasi il film in capitoli, la quindicina di morti mietute dalla vendetta di un pacifico cittadino (Stellan Skarsgard) a cui è stato ucciso il figlio, implicato in un giro di droga. La furia vendicatrice del genitore, oltre a causare una guerra tra bande che insanguina i bianchi paesaggi norvegesi, stermina la gang di criminali dedita allo spaccio, capitanata da un assurdo “yuppie” fissato col salutismo, vegano e dai discutibili gusti sull’arredamento. Kraftidioten si inserisce in quel filone di gelide commedie scandinave che, con il loro umorismo laconico, e spesso improvviso, evidenziano e sottolineano momenti e tematiche crude e tragiche, straniando e spiazzando lo spettatore, che ride di gusto ma anche con un certo groppo in gola. Le stravaganze degli atteggiamenti e degli ambienti e, soprattutto, la genialità di molti dialoghi, su cui vige il nome tutelare del solito Aki Kaurismaki, rendono il film di Molland un piccolo gioiello di cattiveria e cinismo, non fini a sé stessi ma sempre significativi in quanto, come accennato, contribuiscono a sottolineare la violenza e la stupidità umana (e infatti guardando questo film non è campato in aria pensare a una certa influenza dei Coen); il film inoltre è retto dall’ottima prova degli attori (tra cui anche un Bruno Ganz in particolare forma) e dalla fotografia capace di esaltare i paesaggi e di darne un significato metaforico, nonostante sia macchiato da una seconda parte un po’ macchinosa e ripetitiva, che però, alla fin dei conti, poco toglie al fascino e all’impatto del film.
Attraversando l’Oceano e sbarcando negli States interessante – e anche meno di nicchia – è l’esordio dietro la macchina da presa di Hossen Amini, sceneggiatore di Drive: The Two Faces of January, interpretato da Oscar Isaac, Viggo Mortensen (bravissimo) e Kirsten Dunst. Noir sulle colpe, le ossessioni e le responsabilità e sul passato che non abbandona, non vuole essere nulla di particolarmente innovativo, nell’obiettivo di essere un coinvolgente prodotto di genere, ma colpisce per la sua robustezza, per la tensione che riesce a creare e per il suo fuggire la banalità più risaputa. Sorretto da una sceneggiatura compatta e impeccabile, che accenna sotto certi punti di vista ad Alfred Hitchcock (il tema principale della colonna sonora, per esempio, sembra una cover delle musiche di Herrmann), non è privo di sequenze che mostrano una certa raffinatezza registica e una mano tutt’altro che piatta, che lasciano ben sperare nel futuro di Amini dietro la macchina da presa.
Tornando in Europa, per la precisione dai cugini d’oltralpe, non ha bisogno di presentazioni Alain Resnais: il novantunenne autore di Hiroshima mon amour ha presentato in concorso la sua ultima fatica, Aimer, Boire et Chanter, basato su una pièce teatrale. Come nei suoi ultimi film, l’autore francese continua a ragionare sul gioco tra realtà e finzione e sulla rappresentazione eterea e quasi onirica dei rapporti umani, con annessa riflessione malinconica sulla morte. Tutto il film è giocato sul doppio livello della realtà dei protagonisti e della pièce teatrale che stanno interpretando, con una continua influenza reciproca tra la finzione del teatro, sottolineata dalla totale assenza di ambienti naturali, e la vita quotidiana degli attori/personaggi. Resnais è acuto e ironico, elegante e raffinato come sempre, e il film non manca di una certa efficacia, sia umoristica che malinconica; come nelle sue ultime opere (comunque molto meno che ne Gli amori folli) non si sfugge però alla sensazione di una “metafisica” un po’ eccessiva e troppo intellettualistica e calcolata per colpire davvero e non risultare alla lunga prolissa.
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