Il fil rouge che attraversa questo 66° Festival del Film di Locarno, continua a dispiegarsi nei lungometraggi in concorso visti negli ultimi giorni nell’imponente Auditorium FEVI e ancora una volta a essere al centro sono la realtà e la sua rappresentazione filmica, la ricerca di identità e di senso, il confronto con l’altro.

In Pays barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, la rappresentazione è multipla: da una parte quella del supposto popolo barbaro, attraverso lo sguardo paternalisticamente indulgente dell’occupatore, dall’altra quella del potere fascista, nella fisicità del duce, nella retorica della conquista redentrice. Il documentario di Gianikian e della Lucchi è, infatti, un suggestivo montaggio di materiali sul colonialismo italiano in Africa, missione civilizzatrice che si rivela nelle scene dei massacri perpetrati in Etiopia (una strage tutt’ora dimenticata) frammiste alla lettere dei soldati, all’interazione con donne e bambini, alle immagini mute – poste significativamente in apertura – di Piazzale Loreto. Un documento importante sui pericoli di ogni fascismo e razzismo che risente, però, di una voce narrante eccessivamente didascalica e di una straniante alternanza di parlato e cantato che finisce per togliere pathos alla visione.

Tutt’altro scenario e tonalità quelle di U ri Sunhi, delicata commedia degli equivoci, ultimo lavoro del regista coreano Hong Sangsoo. Ma anche qui, al di sotto della superficie lieve e divertente, si indagano l’identità e i rapporti interpersonali come rappresentazione e ricostruzione del reale. Così Sunhi, giovane studentessa di cinema, si confronta con un’identità in definizione attraverso il filtro di tre osservatori per nulla imparziali, senza per questo uscirne sopraffatta.

La riflessione sul cinema e sulla sua potenzialità mimetica permea l’ultimo lavoro di Corneliu Porumboiu, il cerebralissimo Când se lasă seara peste Bucureşti sau metabolism che problematicizza, nella dilatazione temporale consentita dal digitale, l’arte come focalizzazione del frammento e l’astrazione della verosimiglianza, non a caso citando apertamente Antonioni come punto di riferimento irrinunciabile.

Ma una delle più belle sorprese del Festival resta Short Term 12, secondo lungometraggio di Destin Cretton, applauditissimo dal pubblico dell’Auditorium: un cast perfetto – la protagonista, Brie Larson, ma anche tutti i ragazzi che popolano il centro d’accoglienza del titolo – una scrittura impeccabile e la capacità di catturare dinamiche così complesse con una sensibilità e una delicatezza rare, senza mai scadere negli eccessi del pietismo o del sensazionalismo. Intenso e onesto come Cretton stesso, che abbassa timidamente lo sguardo di fronte alla folla di spettatori, molto più numerosi – dice – degli abitanti della piccola isola delle Hawaii in cui è nato e cresciuto. Signore e signori, abbiamo un vincitore.

Scritto da Barbara Nazzari.

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