Non solo Russia. Ipotizzate un governo capace di uccidere in base alle preferenze sessuali: sarebbe inaccettabile anche per la più distopica delle società, eppure in Uganda esiste un disegno di legge che dal 2010 prevede l’ergastolo per gli attivisti LGBT e la pena di morte per la comunità gay. L’Anti-Homosexuality Bill comprende 7 anni di galera per i positivi al test HIV e 3 anni di galera per la mancata denuncia di un omosessuale. Call Me Kuchu (sinonimo di gay in Uganda) è un reportage necessario per conoscere la realtà di una delle più gravi violazioni dei diritti umani. Conosciamo allora la storia di David Kato, primo attivista apertamente gay in Uganda, insieme alla situazione politica, religiosa e culturale del paese.

Nel 2010 a Kampala ha inizio una crociata anti-omosessualità, supportata dal 95% della popolazione e fomentata da politici e personalità religiose, nel nome di DIO. Secondo l’autore dell’Anti-Homosexuality Bill, David Bahati, l’Uganda non riconosce l’omosessualità come un diritto dell’individuo. Il disegno di legge viene discusso a livello internazionale, raccogliendo consensi in patria e feroci condanne nel resto del mondo. La battaglia di David Kato per bloccare il passaggio della legge in parlamento viene appoggiata dall’Human Rights Concil e acquisisce grande visibilità mediatica (positiva per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma pericolosa per l’incolumità degli attivisti coinvolti). L’Anti-Homosexuality Bill non passa in parlamento, ma David Bahati non demorde e continua la sua propaganda anti-gay.

Nel frattempo, cattolici ed evangelici invitano centinaia di credenti a firmare la petizione contro il “reclutamento” dei giovani all’omosessualità (sì, avete letto bene: RE-CLU-TA-MEN-TO! Peccato siano i buoni a parlare di “conversione” all’eterosessualità), aumentando l’ostilità in famiglia. Come testimonia Stosh, rifiutata dai parenti e bollata come bugiarda per aver confessato di essere stata stuprata da un amico perché lesbica.

In concomitanza al preoccupante fanatismo politico e religioso, nasce Rolling Stone, tabloid che fa della carta stampata un utilizzo criminoso. Il giornale aizza una pericolosa caccia alle streghe dedita a smascherare gli omosessuali di Kampala, con invito all’impiccagione (“Hang Them“, recita la prima pagina): le foto private di numerosi omosessuali vengono pubblicate senza permesso, costringendo i diretti interessati a nascondersi (come è successo a Stosh, fotografata in compagnia della partner). Rolling Stone ha inoltre attribuito alla comunità GLBT atti di terrorismo. Il direttore responsabile, Giles Muhame, ha difeso il reportage “Homos Exposed“, dalle accuse di violazione dei diritti dell’individuo, definendolo “d’interesse pubblico”. Di fronte a un crimine così pericoloso, David Kato porta Muhame in tribunale e nel 2011 vince la causa per violazione dei diritti umani. Dopo la vittoria, acclamata da tutta la comunità GLBT, Kato è stato brutalmente assassinato durante le riprese del documentario.

Call Me Kuchu è innanzitutto diffusione, conoscenza politica e sociale. I numerosi premi vinti, compreso quello del pubblico al 27esimo Torino GLBT Film Festival, sono la testimonianza dell’efficacia del film. Le registe Katherine Fairfax Wright e Malika Zouhali-Worrall convincono per l’onestà intellettuale dell’operazione, per la puntualità del reportage, delle immagini e delle parole, unendo all’obiettività della macchina da presa la forza del racconto. Un grande merito del documentario è di aver mostrato la comunità GLBT ugandese, fotografandone il coraggio, l’autoironia e la forza, senza veicolare le emozioni dello spettatore con elementi extra-diegetici, ma attraverso il reportage. Call Me Kuchu fa parte di quel cinema che rende il pubblico consapevole: lo porta a pensare “Non conoscevo questa realtà, adesso sì!”. Wake up Uganda! Stop the hate!

QUI potete acquistare il DVD del fim, in originale con sottotitoli inglesi.

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