AltrodiAntonio Maiorino,11 dicembre 2012
Norman Foster, l’architettura si fa cinema
How much does your building weigh, Mr. Foster? – Quanto pesa il tuo edificio, Norman?, chiede il grande architetto Buckminster Fuller a Norman Foster, allora astro nascente nello stesso campo, in parte sulle orme dello stesso Fuller. L’edificio in questione è il Sainsbury Centre for Visual Arts. Foster non ha la risposta, ma si lascia solleticare dal pungolo intellettuale: “Nel processo che mi ha portato a scoprire quanto pesasse l’edificio, ho capito la sproporzione di peso nella parte meno attraente dell’edificio. (…) In qualche modo, Buck provocava sempre. Provocava se stesso, sfidava se stesso, e quello che lo circondava”. Dall’espressione di “sfida” di Fuller, Carlo Carcas e Norberto Lòpez Amado derivano il titolo del documentario sull’erede di quella challenging architecture, un’architettura sostenibile, che renda migliore la vita raccogliendo le sfide “politiche” della modernità e dell’ecosistema umano, ma che sappia incarnare del vivere lo spazio architettonico anche una velleità spirituale, un elemento di trascendenza che diventa simbolo trasparente, concreto.
Lavoratore instancabile ed appassionato, un pragmatico poeta, frontman di uno degli studi d’architettura di maggiore successo mondiale, la Foster + Partners, Norman Foster ha vissuto un percorso umano, artistico e professionale ricco appassionante e ricco di sfaccettature. La sceneggiatura di Deyan Sudijc, a tratti confinante con l’agiografia, punta in prima istanza a far emergere un incrollabile, umano stoicismo leonardesco da sperimentatore fiducioso. L’apertura, col bel campo lungo che mostra Foster sulla neve – sciare è uno dei suoi hobbies principali –, prolungandosi nella sequenza con gli altri sciatori che colonizzano come un’onda maculata il manto niveo, contiene già uno dei motivi che contraddistingue il biopic, ossia la volontà di sondare anche il Foster “privato”, amante del volo e della bicicletta: se non altro, perché non sussiste discrasia tra l’apertura umana dell’uomo e l’intelligente interpretazione dei bisogni umani del professionista.
Come la figurina che va misurando, da sola, lontano, la neve a passi cadenzati, Foster è tratteggiato come il genio solitario che rende tangibili le proprie visioni (“A volte penso di vedere cose che gli altri non vedono”) attraverso un percorso attento alle esigenze della comunità e dischiuso alla collegialità, snodatosi dalla sudatissima ascesa individuale da una famiglia di umili origini, fondazione dei primi nuclei dello studio a venire, prima il Team 4 (con W. Cheeseman, R. Rogers e S. Brumwell), poi la Foster Associates, ancora con Rogers, fino ai progetti che gli valgono la notorietà internazionale – il Reichstag a Berlino, la Hearst Tower a New York, il Millennium Bridge a Londra, la Hong Kong and Shangai Bank.
Una ricostruzione penetrante, dunque, ma non pienamente “scientifica”, sia per un’affiorante vena apologetica – benché lo statuto dell’autore rendesse difficile evitare qualche ricaduta mistica – sia per l’architettura audio-visiva del documentario che, quasi assecondando la passione per il volo di Foster, trascorre su di un paesaggio d’immagini di edifici con incursioni panoramiche, giochi di luci, immersioni avvolgenti. Molti aspetti “tecnici” dell’opera dell’artista vengono pertanto trascurati – anche se la breve digressione sull’uso di materiali leggeri è illuminante – con il risultato, pure apprezzabile nel suo valore di “fondamenta” alla comprensione dell’opera di Foster, di un’avventura spazio-temporale, che scivola sulle superfici vetrate degli edifici più che carotarne la struttura.
Nella consapevolezza di quanto sia utopica una cine-critica dell’architettura in grado di esaurire tutti gli aspetti della cangiante attività di Norman Foster, sempre in grado di reinventarsi per venire incontro a specifiche ambizioni costruttive, questo gioco al risparmio, più di pennello che di microscopio, più d’impressione che di oggettività, si struttura intelligentemente nel culminare nella descrizione del progetto di Masdar City, l’eco-città ad emissione zero di Abu Dhabi: come già la parentesi sull’importanza del disegno per l’architetto aveva evidenziato, un’idea innovativa, sulle prime intrinsecamente utopica, diventa immagine, e poi materia. E così, dopo le sequenze formato mobile postcard delle visioni fattesi palazzi, le immagini computerizzate di Masdar City, incrociandosi col cenno alla lotta contro il cancro vinta da Foster, assurgono a simbolo di una battaglia impossibile che può diventare realtà, non senza una sfumatura epica sottolineata dalla colonna sonora.
Se, dunque, How much does your building weigh, Mr. Foster? di Carlo Carcas e Norberto Lòpez Amado non pesa al milligrammo l’opera di Norman Foster, ne raccoglie le palpabili suggestioni, come fossero mattoni sparsi di un edificio da ricomporre altrove, dando respiro visivo alle idee dell’architetto, e restituendo per etimologia – eidos = forma – l’esistenza formale attraverso lo sguardo. Presentato al 60esimo Festival di Berlino.
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