64° Festival di Cannes – Diario
Sono le cinque di un normale venerdì pomeriggio, il sole è ancora alto sul lungomare, la spiaggia bagnata da una leggera marea, ma sul bagnasciuga non c’è traccia di bagnanti o ragazzi in costume… Al posto di bikini e racchettoni sfilano, infatti, lungo la croisette uomini in smoking e signore in abito da sera… Non siamo in una bizzarro universo parallelo, ma a Cannes, dove, per quindici giorni, la realtà si inchina alle regole e all’etichetta del più importante festival del mondo.
E così, armati di papillon e accredito ci dirigiamo anche noi alla sala Gran Lumiere, calpestando quella Montee de marche (che in qualunque altro paese chiameremmo red carpet, vive la France) che ha visto passare la storia della settima arte. Poco importa del caos, della confusione e del caldo afoso della costa francese. Abbiamo appena visto, nel atmosfera quasi familiare della piccola Sale Bazin, il delicato e toccante Restless, ultima fatica di Gus Van Sant, e siam contenti così. Felici di quella felicità pura che ogni amante di cinema prova quando esce dalla sala dopo un bel film. Negli occhi abbiamo ancora le immagini (e le lacrime) dei due giovani protagonisti, solitari amanti alle prese con una realtà più grande di loro. Abbiamo avuto il piacere di ritrovare un autore che credevamo un po’ perso e che invece ritorna a raccontare i giovani con le stesse delicate pennellate con cui aveva dipinto Elephant. Eh si, siam proprio contenti così.
E ora, mentre i francesi si accalcano per vedere il nostro Nanni Moretti e il suo Papa così umanamente impreparato al mondo (in un film, Habemus Papam, per cui il pubblico di Cannes non potrà che impazzire), noi saliamo il red carpet. Kim Ki Duk ci aspetta con Arirang. Sarebbe davvero un gran giorno se dopo Van Sant potessimo riabbracciare un altro grande regista un po’ decaduto. Sarebbe davvero un gran giorno, altro che un normale venerdì…
Scritto da Giampiero Tempesta.
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