Venezia 72. Italian Gangster e altre recensioni
Come spesso accade a Venezia, anche quest’anno le sezioni parallele mostrano un grande interesse per il nostro cinema, presentando esordi o opere di autori con già esperienza sulle spalle, ma non ancora affermati: è il caso di Italian Gangster di Renato De Maria e di Banat-Il Viaggio di Adriano Valerio, presentati rispettivamente in Orizzonti e nella Settimana della Critica.
Nel primo De Maria racconta di alcuni dei più celebri banditi che hanno fatto la storia dell’Italia criminale del Novecento, diventando testimoni, simboli (e cause) dei cambiamenti sociali e di mentalità del nostro paese: dal solista del violino Luciano Lutring al torinese Pietro Cavallero, dal rapinatore gentiluomo Horst Fantazzini a Paolo Casaroli, tutti operanti in un arco di tempo che va dall’immediato dopoguerra agli anni immediatamente successivi al boom economico. L’idea sembrerebbe essere quella di delineare un profilo del criminale “classico” italiano: proveniente dal popolo, desideroso di rivalsa e spesso impegnato politicamente. Il film si stabilisce a metà strada tra il documentario stile “Istituto Luce”, per l’utilizzo di immagini di repertorio, e una più dichiarata rielaborazione della finzione: gli attori che interpretano i banditi infatti recitano, ripresi in primo piano, i loro monologhi direttamente allo spettatore (che gioca il ruolo un po’ del giudice, un po’ dello storico). Non è solo quest’impostazione teatrale a conferire all’opera di De Maria una connotazione più vicina alla fiction che al documentario tradizionale: decisiva è infatti anche la scelta di alternare ai monologhi soprattutto immagini tratte da film – da La classe operaia va in paradiso ai poliziotteschi e ai polar. Questo, in parte, destoricizza i personaggi, allontanandoli dal contesto storico e presentandoli come personaggi simbolici e mitici creati da una narrazione. I legami, anche se ribaditi e chiari, con la realtà del periodo e i suoi sviluppi così un po’ sfumano, rimanendo in disparte, con il risultato anche di una mitizzazione forse eccessiva e decontestualizzata.
Di diverso tipo è Banat – Il viaggio di Adriano Valerio, esordiente nel lungometraggio dopo il corto di successo 37°4. Nelle intenzioni, è una commedia sentimentale e amara che affronta il tema degli “expat” partendo dal loro smarrimento sentimentale e intimo, e dal loro spaesamento nel rapporto con i luoghi. Valerio punta molto sulla scenografia e sull’immediato impatto visivo, sulle luci e le atmosfere stranianti e su un certo “virtuosismo figurativo”. Al di là delle ottime intenzioni, questo esordio risulta però fondamentalmente inconcludente e sbagliato: gli 84 minuti sono un susseguirsi di scene che vogliono essere stravaganti e particolari, ma che appaiono solo slegate tra loro, nella continua ricerca di un’originalità fine a sé stessa e sempre più vuota. Manca la compattezza necessaria anche per un film che vuole essere visionario e stravagante, c’è un rapporto non rielaborato con i modelli di riferimento e, in generale, il regista cerca continuamente di sorprendere con il risultato, però, di non centrare l’obiettivo. Risultato: un film senza arte né parte, nonostante sprazzi di un innegabile talento figurativo.