Venezia 72. A Bigger Splash e altre recensioni
Aspettando il film di Gaudino, gli altri tre italiani selezionati (ricordiamo: L’attesa di Messina, Sangue del mio sangue di Bellocchio e A bigger splash di Guadagnino) per il concorso hanno creato sporadici, ma convinti, entusiasmi, una perplessità diffusa e, come tradizione veneziana impone, accese discussioni e divisioni tra sostenitori e detrattori. Hanno pure messo in luce qualche caratteristica dura a morire di certa critica, in particolare di quella mainstream di certi quotidiani.
Caratteristiche come il dominio del contenuto; idea per la quale se la tematica è nobile, impegnata e importante, automaticamente il film è riuscito, a prescindere da qualsiasi specifico filmico e anche dal modo in cui il contenuto in questione viene reso. è il caso di buona parte degli estimatori de L’attesa, film sul trauma e sulla rielaborazione del lutto da parte di una madre. Quale miglior tema su cui scrivere pezzi liricheggianti, calorosi e vagamente retorici? E fa niente che il film di Piero Messina sia di un’eleganza nella messa in scena sì innegabile, ma pomposa e fine a sé stessa, quasi senza sostanza, e che il film, pur parlando di un argomento del genere, non riesca quasi mai a emozionare e a creare empatia. Realizzando un film freddo, paludato, accademico e inerme, Messina si dimostra anche poco originale e manierista, “ispirandosi” un po’ troppo palesemente allo stile del suo maestro Sorrentino, del quale è stato aiuto regista.
Altra caratteristica è la, per così dire, venerazione incontrollata e dogmatica verso i maestri: è il caso del film di Marco Bellocchio, di cui nessuno si sogna di negare la grandezza e l’importanza, e verso il quale la gratitudine è doverosa, ma che con Sangue del mio sangue ha mancato il centro. Certamente non è un film anonimo né totalmente privo d’interesse, ed è anche vero che rispecchia molte delle tematiche care all’autore di Bobbio. E’ però altrettanto vero che la sua ultima fatica, più che un “film libero”, è un film caotico e affastellato, disordinato più che anarchico, casuale più che visionario, che a tratti sembra scritto e girato senza particolare convinzione e pure con una certa piattezza (è il caso della prima parte). Poi, qualcuno che grida, senza particolari argomentazioni, al capolavoro, lo si trova sempre.
Terza e ultima caratteristica e la tendenza a lamentarsi della medietà gradevole e professionale del nostro cinema alle 9 e fischiare alle 11 film che cercano di andare oltre questa medietà: è il caso di A bigger splash di Luca Guadagnino, film che certamente ha momenti poco a fuoco e più deboli, ma che dimostra uno stile, narrativo e registico, personale e interessante, così come non è banale la rappresentazione, non apertamente critica ma – grazie alla sagace commistione dei vari toni e generi (il melodramma passionale, il noir e il grottesco) – in realtà spietata, della cultura dell’indifferenza e degli orizzonti limitati al proprio ego. Guadagnino a volte perde la rotta giusta, ma dimostra di avere un’idea di cinema personale e originale, e offre a spettatori – e critici – varie chiavi di lettura senza dover ricorrere al temino senz’anima e rielaborazione.