Ed eccoci giunti all’ottavo episodio della nuova stagione di Mad Men. Questa volta il buon Matthew Weiner scrive la sceneggiatura con Jason Grote, per la regia di Michael Uppendahl. Il risultato è “The Crash“, ovvero l’episodio più lisergico visto fin qui, in grado di battere in acidità anche i trip di Roger in “Far Away Places” della quinta stagione. Gli impiegati della SCDP trascorrono ormai le giornate circondati dai loro doppelgänger della CGC, ma siamo nel 1968 e il livello di psichedelia non è mai troppo basso, per cui teniamoci forte e prepariamoci al peggio.

The Crash“, lo scontro. Si parte letteralmente in quarta con una folle corsa nella notte: Ken Cosgrove, in estrema difficoltà, guida una Chevrolet Impala tra le grida di scherno dei dirigenti Chevy che, ubriachi e armati di pistola, lo stanno portando a fare un giretto – ossia, lo hanno sequestrato e lo stanno torturando – diretti a tutta forza verso l’inevitabile schianto. Per fortuna ritroviamo Ken (l’uomo più buono del mondo) un po’ ammaccato ma vivo, anche se munito di bastone. Subisce subito l’interrogatorio dei suoi capi, preoccupati per il calendario imposto da Detroit più che per la salute del loro fiore all’occhiello. Le dirigenze SCDP-CGC si sono spontaneamente divise in coppie gemellari: gli eterozigoti Don Draper e Ted Chaough, sudati, stressati e depressi, e i gemelli identici Roger Sterling e Jim Cutler, freschi come roselline (potrebbero tranquillamente esibirsi con il Rat Pack, da cui sembrano provenire). Pacifici come serafini, i due sono intenti in una partita a dama che pare giocata allo specchio. Jim è il sosia perfetto di Roger non solo nello stile e nello humor, ma anche nella passione per le sostanze psicoattive: per stemperare lo stress provocato dalle contorte deadline del nuovo padrone General Motors, il secondo brizzolato della compagnia decide di chiamare il proprio medico per “dare una sistemata a tutti”. Si spalancano così le porte della percezione: il dottore di Jim somministra una generosa quanto temeraria iniezione di stimolanti all’intero personale dell’ufficio, provocando un’onda anomala di delirio collettivo che va ben oltre la quotidiana soglia di confusione alcolica alla quale gli impiegati della SCDP (e con loro gli spettatori) sono stati abituati. Dal tredicesimo minuto in poi assistiamo infatti all’escalation di sballo, iperattività e distorsione percettiva dei protagonisti, rinchiusi negli uffici come leoni in gabbie spiritate, sinfonia che raggiungerà la sua apoteosi nel selvaggio tip-tap ballato da Ken Cosgrove davanti all’attonito Don.

Ma lo scontro tra Don Draper e la realtà è iniziato molto prima della nefasta iniziativa di Jim. La fine della relazione clandestina con Sylvia Rosen lo ha lasciato in condizioni psicologicamente scricchiolanti. Passa le notti sul pianerottolo dei Rosen, fissando la porta e fumando una sigaretta dopo l’altra, che la povera Sylvia, sempre più spaventata, deve affrettarsi a far sparire per non destare i sospetti del consorte. Don si è trasformato in uno stalker, e ne abbiamo la conferma durante la terrificante telefonata tra lui e Sylvia. Don non sente ciò che l’ex amante gli sta dicendo; le sue battute suonano anzi del tutto disconnesse rispetto alle suppliche della donna, che lo prega di lasciarla in pace, mentre Don risponde col tono di chi si sente ancora a buon diritto l’interlocutore di un discorso amoroso. Sylvia ora ha persino paura di Don; non si sarebbe mai aspettata la sua reazione, e forse non avrebbe nemmeno creduto di troncare lei stessa la loro relazione. “Non farti agganciare in faccia”, gli dice. Ma Don rimane immobile dall’altra parte del filo, impotente, e Sylvia appende la cornetta.

Don vaga durante l’intero episodio inebetito e stravolto. L’iniezione di fiducia del dottor Hetch accelera la personale deriva visionaria già cominciata tra il pianerottolo dei Rosen e le pareti di Madison Avenue, dove Don viene tormentato dal ricordo lontano delle prime esperienze sessuali nel bordello che lo ospitava da adolescente. La misteriosa droga potenzia l’effetto alienante della sua infelicità, confondendo la percezione che Don ha del tempo. Mentre si aggira per i corridoi dello strano luna-park in cui si è trasformata la SCDP, il tempo passa senza che lui ne abbia memoria; sembra risucchiato da un buco nero o dalla tana del Bianconiglio, e i suoi stessi ricordi sono interferenze che non gli danno pace. È lambito dalla gelosia per le sue donne, Peggy compresa. Cade in pozze d’euforia e traduce tutto il lavoro creativo per la Chevy in una metafora della sua ossessione per Sylvia. Vuole incontrare i dirigenti di persona perché deve “poterli guardare negli occhi. Il timbro della mia voce è importante come il contenuto”: difficile non leggere in questa necessità la frustrazione dell’amante respinto a cui non viene concessa l’udienza finale. Don incita i sottoposti con discorsi edificanti che sono quelli dell’innamorato che non ha ancora perso la speranza: “So che state tutti sentendo l’oscurità, oggi, ma non c’è motivo per cedere […]. In cuor mio so che non possiamo essere sconfitti perché c’è una risposta che aprirà la porta […]. La nostra pazienza e il nostro impegno sono messi alla prova. Una grande idea può conquistare una persona”. Don uscirà dal suo viaggio da incubo solo grazie a uno shock, e ricostituirà il proprio ordine egoistico abbastanza rapidamente, lavandosene le mani della missione Chevrolet. Imparerà a controllarsi in presenza di Sylvia sull’ascensore, e in poche secche battute ridefinirà il ruolo aziendale di Ted Chaough: parafulmine di Don e “sposo novello” già caduto nel dimenticatoio, esattamente come Megan.

Il gioco che gli autori fanno coi loro personaggi in “The Crash” è ardito e forse a tratti un po’ greve. L’espediente narrativo della magica medicina spoglia i caratteri di qualsiasi tono epico e lascia la loro esasperazione, che ha i toni della freddura (se non del meme), alludendo a un ipotetico “sai qual è il colmo per Don Draper?”. Il risultato è in ogni caso conturbante. Si pesta forte sul pedale della smitizzazione del nostro antieroe: Don Draper ha già visto tempi difficili, è già stato debole e sudato, ma tutto questo accadeva con forti accenti drammatici, in un percorso evolutivo del personaggio che, nella quarta stagione, pareva tendere a qualcosa che non è mai stato raggiunto. Ora Don viene perpetuamente macerato nel ridicolo, perché la vera natura di questa sesta stagione è parodica. Nello specifico, stiamo assistendo a una parodia satirica che se la prende col testo originale, che demolisce il mito di Mad Men, ovvero Don Draper e la sua eventuale/impossibile redenzione.

C’è però, in “The Crash“, una situazione che oltrepassa la dimensione farsesca imbastita qui attorno a Don, e la troviamo proprio nella sua casa, il luogo da cui lui è perennemente assente. L’ormai adolescente Sally Draper viene lasciata sola a badare ai fratellini, perché Don non torna mai dall’ufficio e Megan vuole andare a teatro. Ma mentre Sally è intenta a leggere Rosemary’s Baby di Ira Levin, qualcuno si introduce nell’appartamento: una gigantesca donna nera dotata di un’enorme borsa tintinnante e di una parlantina notevole, che si presenta a Sally come “Grandma Ida“. La tensione durante la scena raggiunge vertici inaspettati anche per Mad Men. La regia pone l’accento sulla distanza fisica tra le due figure, la bambina sola e la sinistra ladra; e il pubblico inizia ad avere veramente paura. Perché Grandma Ida insiste così tanto affinché Sally si avvicini a lei? In effetti il personaggio ha un’aria piuttosto truce… Il ritmo si fa hitchcockiano, sappiamo che qualcosa di orribile potrebbe accadere da un momento all’altro. Ma non accade. Non ha importanza, però: il male è riuscito a entrare, ed è stato Don a lasciarlo passare (“Sono stato io a dimenticare la porta aperta. È colpa mia”, dirà poi alla figlia). Cosa succederà adesso?

 

 

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