Rotterdam, porto e crocevia di viaggi cinematografici. Poche immagini hanno lasciato su di me un ricordo indelebile, in questo ventoso festival, come quella del film Artist of Fasting, in cui una discinta fanciulla vestita di pelle aderente, durante un rapporto sadomaso con il protagonista, esclama “Je suis Charlie Hebdo!”. Politicamente scorrettissimo. Ma si può ironizzare su una tragedia ancora calda come quella di Parigi dell’anno scorso?

Il regista del film è Masao Adachi, una figura di militante e rivoluzionario nel clima rovente del ’68 giapponese. Rientra in una triade di registi arrabbiati dell’epoca insieme a Nagisa Oshima e a Koji Wakamatsu. Figure tra loro collegate, Adachi è stato più volte sceneggiatore di entrambi, oltre che regista. La dissacrazione che i tre hanno fatto con il loro cinema passa attraverso il marxismo e l’erotismo. I pinku, i film erotici giapponesi, sono stati un mezzo corrosivo del potere fondato su una mentalità borghese. Arriva anche in Giappone il momento della lotta armata, con la costituzione del gruppo eversivo United Red Army, che non agisce solo sul territorio nazionale, ma concepisce una divisione internazionale, e tesse uno stretto legame con il marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, FPLP. E gli intellettuali di sinistra, come i registi di cui sopra, non prendono le distanze dai “compagni che sbagliano” come in Italia.

Nel 1971 Wakamatsu e Adachi decidono di partire per Beirut per realizzare un documentario sulla resistenza palestinese. Nasce così Armata Rossa. Dichiarazione della guerra mondiale, film clandestino, proclama rivoluzionario al suono dell’Internazionale, prodotto dalla United Red Army e dal FPLP. Quella esperienza segna Adachi, che aderisce al FPLP e rimane a vivere in Libano, sposando la causa palestinese. Farà ritorno in patria dopo 28 anni, nel 2001, estradato dalle autorità giapponesi. E riprendendo a fare cinema, realizzerà il film Prisoner/Terrorist, che è la storia dell’attentatore sopravvissuto del commando giapponese artefice del massacro dell’aeroporto di Lod, nel 1972. Un’azione sanguinaria compiuta da militanti giapponesi, per conto del FPLP, che spararono contro passeggeri nell’aeroporto israeliano, per poi uccidersi da kamikaze – fatto decisamente inusuale per il terrorismo dell’epoca – facendosi esplodere con una bomba a mano. Il terrorista sopravvissuto si salvò per la sua bomba a mano difettata, che non esplose.

Dunque Adachi è un Toni Negri giapponese, uno che ha aderito alla lotta armata e a quel terrorismo arabo che, con un’ideologia profondamente diversa, ha anticipato le attuali azioni dell’Isis. Ma Adachi, con il suo cinema, sta sbattendo in faccia al pubblico un’analisi di quell’epoca, che include anche il punto di vista dei mostri, le loro convinzioni, ciò che viene rimosso nell’opinione pubblica. E in ciò sta lo sberleffo della battuta su Charlie Hebdo, su una società per cui l’indignazione è univoca oltre che una moda e uno status symbol. Ma che non è in grado di comprendere la complessità degli eventi che stiamo attraversando.

Giornalista, critico cinematografico e teatrale, esperto in cinema dell’estremo oriente. Collabora con varie testate.

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