True Detective – Stagione 1: la recensione
Il fascino indiscutibile di True Detective può essere ricercato in numerosi elementi, benché ognuno di questi non ne esaurisca il magnetismo addirittura vischioso. Innanzi tutto l’atmosfera che evoca nella memoria di chi guarda un’infinità di rimandi cinematografici: da Children of the Corn di Fritz Kiersch a The Sacrament di Ti West, per poi passare a riferimenti più stratificati quali Zodiac di David Fincher, Twin Peaks e Fire Walk With Me di David Lynch. Le opere di Fincher e Lynch hanno in comune con True Detective non solo la sceneggiatura (in particolare Zodiac) che sembra un depistaggio continuo (altro elemento che ne accresce il potere ipnotico) – volto più a rendere i protagonisti ossessionati da un caso irrisolvibile, devastandone l’esistenza, che a trovare il colpevole – ma anche la riflessione sul tempo che non è (soprattutto in Twin Peaks) lineare.
Time is a flat circle continua a ripetere Rustin Cohle, personaggio anfibio e camaleontico: mentre Martin Hart, il collega-amico che dei due sembra quello più strutturato, ma che non è esente da comportamenti tutt’altro che irreprensibili, è totalmente incapace di essere altro da sé (anche nei travestimenti), Rust è terribilmente a suo agio in ogni situazione, sia quando veste i panni di detective geniale sia quando si deve mischiare a tossicodipendenti e spacciatori. In un certo senso è come se con Rust si muovessero i suoi doppelgänger, motivo in più per pensare che, in fondo, l’opera di Pizzolatto sia un’interrogazione sullo statuto della narrazione e dei personaggi che la abitano (o che ne sono abitati). Il fatto che Carcosa sia molto simile alla Black Lodge lynchiana (o alla camera 237 dell’Overlook Hotel di Shining), dove il tempo, appunto, è un cerchio piatto, non fa che rinforzare la tesi per la quale tutti i personaggi non sono altro che burattini di carne, oggetti in balia della narrazione stessa, figure di latta e bambole di plastica che ripetono le medesime azioni all’infinito. Il prendere coscienza della propria nullità e impotenza (anche nella vita reale), la visione del riproporsi eterno della stessa situazione, fa a sua volta parte della narrazione o è uno strappo? Ma uscire dalla narrazione implica l’uscita dal tempo, poiché l’istante in cui avviene la comprensione non può che essere eterno. Ma quando si è “nel tempo” si è costretti a nascere, vivere e morire sempre nello stessa maniera, senza poter cambiare la propria esistenza poiché la consapevolezza del modo in cui le singole vite si ripetono non è data in questo spazio-tempo, in cui si può solo continuare a mettere in scena il medesimo racconto.
In ultima analisi, quindi, ciò che rende True Detective così ipnotico e inquietante è la riflessione attorno alla libertà d’azione di ogni personaggio (e di ogni persona) all’interno della propria vita, e l’esito lascia sgomenti. “E questa è la sorte segreta e terribile dell’intera vita. Sei intrappolato in quell’incubo in cui continui a svegliarti”.
Scritto da Gloria Zerbinati.
Gloria Z. | Antonio M. | Chiara C. | Eugenio D. | Sara M. | Sara S. | Stefania M. | ||
10 | 8 | 8 1/2 | 9 | 8 1/2 | 8 | 9 |
Regista: - Sceneggiatore:
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