Rectify – Stagione 1: la recensione
Rectify è la prima serie originale di Sundance Channel, rete legata al festival indipendente più famoso del mondo, e assieme alla co-produzione della magnifica Top of the Lake costituisce un biglietto da visita di tutto rispetto. Rectify, ideata da Ray McKinnon (già attore in Sons of Anarchy), condivide con la miniserie di Jane Campion il numero esiguo di episodi (soltanto sei), ma ha già una seconda stagione in produzione.
Daniel Holden è stato incarcerato appena diciottenne e poi condannato a morte per lo stupro e l’omicidio dell’allora fidanzatina quindicenne: dopo 19 anni viene scarcerato, grazie alla messa in discussione di alcune prove che insinuano ora il ragionevole dubbio su cui ricostruire il caso. Fuori, però, il mondo è cambiato, così come la famiglia di Daniel, mentre il resto della comunità della fittizia Paulie, Georgia, è pronto a brandire i forconi contro quello che inevitabilmente, e convenientemente, resta il colpevole agli occhi dei più.
Rectify è tutt’altro che il resoconto di un dilemma tra colpevolezza e innocenza. E’ un viaggio visivo e sonoro non conciliatorio dentro quella che dovrebbe essere una riappropriazione di sé, ma che si rivela in realtà un violento confronto con un’adolescenza congelata, un’esistenza bloccata a lungo tra quattro mura asettiche in cui il tempo non ha senso e gli spazi fisici non esistono; eppure è rimasto lo spazio mentale, e l’insopprimibile istinto a restare umani, nonostante il passaggio degli anni serva solo a prepararsi al momento della morte. E dunque cosa succede se quello che fino a quel momento è l’unico punto fermo viene improvvisamente strappato via? Se l’unica realtà conosciuta si ritira per far posto a un mondo che può essere tanto bello quanto ostile e crudele?
Ciò che resta più impresso di Rectify è il tempo che la scrittura si prende per raccontare. E’ chiaro che del caso gudiziario riaperto agli autori, per il momento, non interessa: certo, vengono seminate prove che ci sia più di una ragione per dubitare della risoluzione più semplice (la vittima, secondo il leitmotiv twinpeaksiano, è meno santa di come viene dipinta; i coetanei di Daniel sembrano tutti dei bifolchi inaffidabili), ma per tutta la stagione l’azione è rallentata, rarefatta, concentrata sul protagonista, sulle sue sensazioni, sui rapporti umani da reinstaurare e sull’idea che noi spettatori possiamo farci di lui. Abbiamo così il tempo di conoscere la famiglia allargata di Daniel: Amantha, la sorella combattiva e anticonformista (almeno rispetto alla melma bigotta che sommerge Paulie); la mamma sinceramente affezionata al figlio ma titubante nel riprendervi confidenza; il suo nuovo marito, il tranquillo e pragmatico Ted Sr.; il di lui figlio, Ted Jr., concentrato dei peggiori stereotipi dell’ignorante uomo di casa del profondo sud; la moglie Tawney, tanto angelica quanto remissiva, eppure la prima a stabilire un contatto profondo con Daniel; Jared, nato dalle seconde nozze, fratello mai conosciuto prima eppure da subito amico, perché è il più vicino anagraficamente all’età in cui Daniel ha dovuto lasciare quella vita. E soprattutto conosciamo e osserviamo Daniel, che torna al sole, all’aria, agli oggetti e agli spazi (l’episodio 1×03, Modern Times, tutto concentrato su questo, è splendido): è tutto più grande e veloce e rumoroso. Ma progressivamente vediamo anche emergere i segni di quei 19 anni chiuso in un parallelepipedo senza finestre, con la sola compagnia delle voci dei vicini di cella e della sua mente.
Se alcuni personaggi e snodi sono abbozzati un po’ troppo superficialmente (l’avvocato Jon e Amantha, il senatore), l’aspetto migliore di Rectify è proprio nel susseguirsi di occasioni, di gesti e di dialoghi, punteggiati di sequenze poetiche e bellissime (la conversazione con Tawney in 1×02, “Sexual Peeling”; Daniel e la madre al supermercato in 1×04, “Plato’s Cave”; l’incontro coi reporter nella stessa puntata), che fanno emergere ora la mistica grazia della natura, ora l’oscura inquietudine (l’uomo misterioso all’inizio di 1×05, “Drip Drip”), ora inaspettate esplosioni di violenza.
A fine stagione, Daniel avrà tentato invano delle strade per mettere ordine dentro di sé, per fare i conti coi sensi di colpa (non è chiaro se veri o indotti) e con la difficoltà estrema di separare il sogno, l’incubo e la realtà (in tal senso “Drip Drip” è forse l’episodio cardine della stagione). Il finale resta crudelmente aperto, ma al tempo stesso si ha l’impressione che Rectify sia stato onesto fin da subito con noi che guardiamo: ci chiede pazienza e di accordarci al suo ritmo inedito, affinché niente venga lasciato fuori posto.
Più di una menzione speciale meritano l’impianto sonoro, la regia pulitissima, l’uso dei flashback e del montaggio; assolutamente straordinario Aden Young, capace di incarnare letteralmente l’indecidibilità e il dubbio, e perfetti tutti gli altri interpreti, a partire dalla meravigliosa Abigail Spencer nei panni di Amantha.
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