Viso da bambola di porcellana, capelli ricci, sguardo penetrante; è questa l’immagine che è rimasta nell’immaginario collettivo di Maria Schneider, consegnata all’eternità per il ruolo, bello e maledetto, di Jeanne in “Ultimo tango a Parigi”.

Maria Schneider nasce a Parigi, nel 1952, figlia dell’attore Daniel Gélin (“L’uomo che sapeva troppo”), che non la riconobbe, e di una modella tedesca, Marie Christine Schneider.

Cresciuta in quella culla d’arte che era (e forse è ancora) Parigi, Maria si avvicinò fin da giovane al teatro e al cinema, esordendo, non accreditata ne “L’albero di natale” di Terence Young del 1969, fino alla consacrazione nel 1972, a soli vent’anni, al fianco di Marlon Brando in quel capolavoro decadente che è  “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci e, tre anni dopo, con Jack Nicholson in “Professione reporter” di Michelangelo Antonioni. Dopo, il baratro. Licenziamenti, droga, fino al ricovero in ospedale psichiatrico, nel 1976, a Roma. Qualche ruolo, e una carriera da discografica, non basteranno a scuoterle di dosso i pesanti panni di Jeanne.

“Prigioniera di quell’ultimo tango” titola Repubblica il 3  Febbraio, giorno della sua morte, quel ruolo così vivo, e così forte è stato la sua fortuna e la sua rovina. Dopo il film di Bertolucci infatti Maria non si riprenderà più, continuando a precipitare in un vortice di depressione e droga.

“Fui quasi violentata sul set” rivelerà in un’intervista del 2007. “Quella scena non era prevista nella sceneggiatura. Io mi sono rifiutata, mi sono arrabbiata. Ma poi non ho potuto dire di no. Avrei dovuto chiamare il mio agente o il mio avvocato perché non si può obbligare un attore a fare qualcosa che non è nella sceneggiatura. Ma all’epoca ero troppo giovane, non lo sapevo. […] Le lacrime che si vedono nel film sono vere. Sono lacrime di umiliazione.”

Una vita intera, tutta una carriera, racchiusa in un unico personaggio, in poche, fortissime scene, discusse, censurate tagliate e ricucite, pesanti, forse troppo per una ragazzina di vent’anni.

E anche ora, dopo più di quarant’anni, la vogliamo ricordare così, come se il tempo non fosse passato, gli occhi vivi e il sorriso sfuggente, come Jeanne all’inizio del film, prima di essere schiacciata dal peso del suo personaggio.

Scritto da Leonardo Ligustri.
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