Carol: la recensione
Distanze siderali di un amore lesbico nel nuovo film di Todd Haynes
Cate Blanchett è la bionda e statuaria signora che in Carol s’innamora, ricambiata, di Rooney Mara, ventenne in cerca del vero amore prima ancora che della propria identità sessuale. Entrambi i personaggi escono dalla penna di Patricia Highsmith, il cui romanzo è stato adattato da Phyllis Nagy conservandone l’ambientazione a Manhattan negli anni ’50. Vincitore della Queer Palm a Cannes 2015 proprio con Carol, Todd Haynes è un regista apertamente gay, autore del celebre Velvet Goldmine, vangelo apocrifo del glam rock e del compianto Bowie. Ma la sua filmografia si concentra spesso su figure femminili drammatiche, come quelle interpretate da Julianne Moore – Safe e Lontano dal paradiso – e da Kate Winslet nella miniserie Mildred Pierce.
Carol si accoda a un percorso indiscutibilmente d’autore, costellato da film in costume che raccontano sogni e idiosincrasie della società borghese. La sua estenuante ricerca estetica riproduce un 1953 solo apparentemente da cartolina. Le inquadrature perlustrano set freddi e impeccabili; la fotografia si desatura virando nei toni spenti dei tessuti di flanella indossati da Rooney Mara (che solo ad arco narrativo concluso vestirà finalmente di rosso). La pelliccia sontuosa e le unghie rossissime di Cate Blanchett dirompono programmaticamente in questo grigiore, senza scaldare nulla, anzi: raffreddano istantaneamente i propri ardori.
L’estetica corrisponde ai contenuti, perché Carol è un dramma composto e trattenuto come l’amore di cui parla. Haynes raggiunge il vertice emotivo del film nelle primissime scene, dove un incipit strepitoso gioca a lungo con sguardi e punti di vista per descrivere il colpo di fulmine, sezionando gli istanti e individuando il momento esatto in cui l’amore nasce dal nulla. Lo fa dopo aver mostrato le due protagoniste in un tempo futuro, vibranti di una tensione di cui sappiamo già tutto senza che ci sia stato ancora detto niente.
La storia di Therese (Mara) che scopre l’amore sembra in un certo senso finire qui. Le due protagoniste vivono su binari paralleli, e anche quando s’incontrano sono distanti, scollegate: sono nella stessa stanza ma non si parlano, non si toccano, possono al massimo sfiorarsi: è come se non fossero mai veramente sole – eppure lo sono. Questo frangente ricorre così spesso nel film da non poter essere casuale; fa pensare che Haynes abbia costruito il discorso proprio sulla mancanza di passione dei personaggi, così schiacciati dalle costrizioni sociali da muoversi come automi anche nella propria intimità. Paradossalmente, ci è riuscito così bene da creare un film spaesante ma anche un po’ noioso: nel suo gioco di prestigio, il melodramma c’è ma non si vede; e toni così smorzati non potranno mai provocare grandi entusiasmi.
Lontano dal paradiso, che parlava di un amore impossibile perché interrazziale, è il suo gemello diverso: se il film del 2002 era coloratissimo e iperrealista, Carol è naturalistico, sgranato dalla fotografia analogica; ma sono entrambi nipoti dei mélo anni ’50 perché sollevano il tappeto mostrando che sotto al matrimonio borghese si trovano intrappolati donne e uomini che non possono essere loro stessi.
Sara M. | Davide V. | Giacomo B. | Michele B. | ||
7 | 7 | 7 1/2 | 8 1/2 |