“Adorava Woody Allen. Lo idolatrava smisuratamente; per lui, in qualunque stagione, era ancora l’autore di Manhattan, quello che adorava New York, per il quale era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin…”.

Questa la mia parafrasi dell’incipit di Manhattan, nel salutare gli ottant’anni di Woody Allen. Per la mia generazione è difficile staccarsi da questa fase della vita, quella dell’innamoramento alleniano, quella in cui si citavano i suoi aforismi, imparati ormai a memoria, tra amici, per mostrarsi brillante. Si era un po’ come degli Zelig nei confronti dell’autore, che a sua volta era già uno Zelig nei confronti di un cinema classico, di un mondo in bianco e nero che pulsava della Rapsodia in blu. Per molti di noi è venuto prima Woody Allen dei suoi stessi maestri, Fellini e Bergman. Se le nostre esperienze di vita in qualche modo si modellava sulla sua – le parabole sentimentali come la storia di Io e Annie passando attraverso le stesse fasi – facendola combaciare e traendone consolazione e orgoglio, la sua stessa poteva riprendere quella di Humphrey Bogart. Bisogna pur avere dei modelli, diceva in Manhattan all’amico che gli rinfacciava di atteggiarsi a Dio. Ed era Umberto Eco, tra i primi intellettuali italiani ad accorgersi dell’importanza di quel piccolo comico ebreo occhialuto, a scrivere che il finale di Provaci ancora, Sam segnava la sconfitta, non tanto del personaggio lasciato dalla donna, di cui era innamorato, che tornava col marito, quanto quella dell’autore, nel ricalcare il finale di Casablanca, nell’essere prigioniero di un modello. Si era anche noi prigionieri, plagiati di un cinema, a sua volta plagiato da un altro cinema in un gioco di scatole cinesi.

Non ci interessa in questa sede il gioco che Woody Allen sia o meno finito e a partire da quale film. Si tratta di un autore che ha certamente realizzato delle operine, delle commediole da strapazzo dopo il suo periodo classico, ma che comunque ha saputo ancora risalire la china anche in alcuni degli ultimi film. Per noi comunque l’Allen del periodo aureo rimarrà sempre quello di New York, prima delle sue peregrinazioni tra Londra, Roma e Barcellona. Consapevoli che è un mondo che non esiste più, con la perdita dell’innocenza dell’America nell’11 settembre, con la cancellazione di quelle torri gemelle che formavano la lettera H nel titolo Manhattan. Ma che non esisteva già più negli anni ’80, che già Allen vedeva con nostalgia o come “metafora della decadenza della cultura contemporanea”. “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata…” concludeva l’incipit del film. E ancora, noi alleniani della prima ora, ci ostiniamo a pensarlo.