La Prima Guerra Mondiale, di cui quest’anno cade il centesimo anniversario, nella memoria storica italiana e nell’autoriflessione della nazione non sempre trova, e ha trovato, lo spazio adeguato, lontana come è nel tempo e priva di quegli appigli necessari per prese di posizione e discussioni ideologiche più legate all’oggi che all’ieri. Quasi semplicente un contenitore di nozioni da studiare a scuola e un ricordo lontano e vago. L’ottantatreenne Ermanno Olmi con Torneranno i Prati cerca di annullare questa lontananza della memoria, fissando, in un certo senso, “sopra lo scorrere della Storia” l’umanità e il sacrificio dei soldati vittime e protagonisti di quello che Benedetto XV definì “l’inutile massacro”.

Il film è ispirato al racconto La Paura di Federico De Roberto, pubblicato “a caldo” nel 1921, ma anche alle vicende narrate al giovane Olmi dal padre che della Grande Guerra era stato soldato, alla cui memoria l’opera è dedicata. Sfiorando una delle tematiche ricorrenti fin dai tempi de Il Posto e de I Fidanzati, cioè gli effetti dello scorrere della Storia e del contesto sull’intimo dei protagonisti, il regista bergamasco regala un’opera di grande fascino visivo e di un’umanità straordinaria, lontana sia dalla retorica delle grandi celebrazioni sia dal furore antimilitarista. Come in molte sue opere, Olmi non racconta; declama e dipinge. Non c’è, infatti, una vera e propria trama nel senso più comune del termine, ma semmai una serie di “dipinti” che rappresentano vari aspetti della vita in trincea, e che soprattutto trasmettono la lacerazione dell’anima dei soldati così come la loro inevitabile, irrimediabile e tragica trasformazione.

La purezza delle immagini e lo splendore della fotografia di Fabio Olmi (i cui colori vanno dal marrone/seppia delle trincee, al grigio-blu degli esterni delle notti di luna piena) rendono Torneranno i Prati non solo una semplice sequenza di belle inquadrature, ma soprattutto uno dei picchi di quel lirismo che è una delle fondamenta della poetica olmiana: la poesia delle immagini da un lato è testimonianza che intende lavorare sulla memoria, dall’altro rende quasi metafisica (e da questo punto di vista è decisivo l’utilizzo degli splendidi e mozzafiato paesaggi montani dell’Altopiano d’Asiago) la rappresentazione della condizione dei soldati, togliendola in questo modo dal fluire della Storia e dalla quotidianità della guerra, per porla in un piano superiore, astorico e capace di essere pregnante anche nel presente. E di dialogare con noi, come del resto fanno i soldati alla fine, rivolgendosi direttamente allo spettatore, condividendo con lui l’umanità rubata, e soprattutto costruendo quei ponti necessari per fare sì che la Grande Guerra non diventi un rimosso della nostra nazione, nè solo una preda di saltuarie e sterili celebrazioni in piazza.

Edoardo P.Michele B.
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