Presentato in concorso al Detour Film Festival, Hope di Boris Lojkine è la storia di una ragazza nigeriana che decide di lasciare il proprio paese per cercare fortuna in Europa, ma che finisce irrimediabilmente per diventare l’oggetto sessuale di quasi tutti i maschi incontrati durante il viaggio. Hope potrebbe essere la storia di tante ragazze che, in fuga dalla miseria della terra d’origine, finiscono fagocitate dal mercato della prostituzione.

Hope è l’unica donna in un gruppo di soli uomini, e l’unica nigeriana in un gruppo di camerunensi, perciò fin dall’inizio corpo estraneo e oggetto di angherie e sopraffazioni. Il solo che sembra, in qualche modo, tenere a lei è Léonard, un ragazzo che vorrebbe studiare in Europa, ma che pur di raggiungere il suo scopo è pronto a piegarsi alla logica maschilista del gruppo, sfruttando le grazie dell’indifesa compagna di sventura.

Il film si sviluppa in quella parte del “viaggio della speranza” fra la partenza e l’imbarco, fra il Sahara e le coste marocchine, sfruttando bene la desolazione e lo squallore dell’ambiente, fra sudici ghetti in mezzo al deserto nei quali vige la legge del più forte, dove i capi delle gang africane si fanno chiamare Presidente e tiranneggiano altri disperati con la violenza e la superstizione (notevole la sequenza del rito voodoo con il quale il ferocissimo boss nigeriano rende Hope sua schiava) per appropriarsi di quel poco che ancora possiedono. In un viaggio simile a una discesa all’inferno, con pochi momenti di sollievo, da cui si può uscire solo vendendo l’anima a un diavolo miserabile ma non per questo meno crudele, emergono i due protagonisti, persone comuni, non eroi, segnati da una condizione umana che li rende preda di chiunque: Léonard (Justin Wang), fondamentalmente buono, ma non abbastanza coraggioso da difendere fino in fondo la ragazza e i propri principi, e Hope (Endurance Newton), vittima predestinata della violenza dei maschi, completamente inerme ma capace di sopportare la sofferenza in silenzio e di essere grata al suo uomo, dimenticandone le azioni più vili.

Un film delicato, che ricorda in qualche modo il realismo poetico francese degli anni Trenta (Il porto delle nebbie su tutti) per la solidarietà che si crea fra Hope e Léonard, una donna e un uomo condannati dal destino prima ancora che dall’ingiustizia sociale, e che non lascia indifferenti per la rappresentazione di un mondo martoriato dalla povertà e dall’ignoranza, ma non completamente privo di valori umani, cui si può perdonare anche la svolta melodrammatica del finale, che lascia quel bagliore di speranza (contenuto nel nome della protagonista) spesso negato alle migranti africane. Molto buona, infine, la prova recitativa dei due protagonisti (entrambi esordienti non professionisti), sobria e misurata.

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