Con Sapore di te i fratelli Vanzina tornano a Forte dei Marmi, a 30 anni dal classico Sapore di mare, per raccontare le estati degli anni Ottanta, e “omaggiare un’epoca in cui la gente era più allegra e spensierata“, secondo le parole dello stesso Carlo. Nelle intenzioni dei Vanzina, dunque, è subito resa esplicita la nostalgia verso quel decennio nel quale raggiunsero il successo con un cinema leggero e garbato, fra amori stagionali e deboli macchiette comiche, partecipe della nuova ondata di ottimismo e di benessere economico, ma ancora indenne dalla rozza volgarità del cinepanettone.

Pur riprendendo, in questo caso, lo stesso format dei modelli di riferimento – storia corale, con personaggi che si ritrovano di anno in anno nella stessa località turistica – non si tratta di un remake o di un sequel, bensì di una storia originale. Abbiamo due amici inseparabili, Luca e Chicco, studenti universitari, dei quali uno becca e l’altro no; una laureanda, Anna, che vive la sua tormentata storia con il dongiovanni Armando; la famiglia romana dei Proietti, con il padre commerciante Alberto, la madre Elena e la figlia adolescente Sabrina, di cui si innamora Chicco, ma che ha in testa solo Luca; infine, l’onorevole napoletano Piero De Marco, in cerca di intimità con la bella amante Susy, soubrette di Drive In. Una storia molto classica, in cui le vicende dei vari personaggi sono destinate a intrecciarsi, e nella quale non per tutti ci sarà un lieto fine.

Sapore di te si sviluppa nell’arco di due estati, 1984-85, ma la ricostruzione d’epoca, almeno sul piano registico, è meno che modesta, limitandosi a mostrare i protagonisti che vanno al cinema a vedere La chiave o Mezzo destro, mezzo sinistro e guardano in televisione un giovane Maurizio Costanzo, o a utilizzare (scelta discutibile perché lo stacco visivo è evidente) un mero filmato di repertorio per gli esterni del viaggio in treno; al contrario, nei dialoghi, la ricerca della citazione che richiami quel periodo è meccanica e fin troppo invadente, fra tormentoni estratti di peso da Drive In o da canzoni di Vasco Rossi. A riportare lo spettatore nel pieno degli anni Ottanta, e a infondergli quella malinconia che nel film del 1983 riguardava gli anni Sessanta, è solo la colonna sonora zeppa di hit dell’epoca, che unisce Spandau Ballet e Stevie Wonder, Gino Paoli e Ricchi e Poveri.

Rispetto ai prototipi con Isabella Ferrari, questo film punta molto di più sui sentimenti che sulla comicità, e se risulta apprezzabile lo sforzo della sceneggiatura di dare vita a un microcosmo narrativo piuttosto coeso, con vicende che si fanno seguire abbastanza volentieri (nell’ambito della leggerezza balneare dell’ambientazione), non sempre gli attori si dimostrano all’altezza nel rendere credibili i loro personaggi: dignitosi e misurati Pasotti, la Autieri e la Saunders, poco convincenti la nevrotica Stella e lo svogliato Salemme, nel ruolo del politico socialista arrapato e maneggione. Il migliore risulta senza dubbio un Maurizio Mattioli più che mai corpulento che, nel ritratto di un commerciante “di moda giovane” e tifoso romanista sfegatato, raccoglie con una certa efficacia il testimone del caratterista coatto e umanissimo che trent’anni fa era appannaggio di Mario Brega.

Certo, chi non è un fan degli anni Ottanta sarà meglio che guardi un altro film (come L’ultima ruota del carro, in cui il decennio viene mostrato in una luce più critica), essendo qui ogni intento di satira sociale annacquato nella nostalgia e nel sentimentalismo (con rifiuto solo parziale della raccomandazione e del clientelismo come filosofia di vita), ma lo spirito è esattamente lo stesso del cinema vanziniano di quel tempo, forse caratterizzato da una certa superficialità e faciloneria, ma non meritevole di essere immediatamente liquidato con snobismo. Occhio all’uomo alla reception dell’hotel: è Riccardo Corredi, che in quegli anni si stava facendo strada sulle reti private toscane con le sue televendite al ritmo del famoso jingle, e che partecipa alla rievocazione con un cameo.

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