L’ultima ruota del carro: la recensione
Quarant'anni di storia italiana dal punto di vista di un umile
Strizza l’occhio alla commedia all’italiana classica di Scola e Risi, L’ultima ruota del carro, il nuovo film di Giovanni Veronesi. Attraversando oltre quarant’anni di storia italiana, il regista toscano sceglie il punto di vista di Ernesto (un dimesso ma intenso Elio Germano), uomo semplice e umile, che non vive i cambiamenti della società da protagonista, ma piuttosto li subisce, dato che la sua massima aspirazione rimane quella di permettersi un’esistenza tranquilla, con un lavoro tranquillo, a fianco di Angela, la donna che ama (la tremebonda Alessandra Mastronardi). Al contrario del suo amico d’infanzia Giacinto (un Ricky Memphis meno burino del solito), perfetto esempio della cultura tutta italiana dei furbetti e (quasi) sempre sulla cresta dell’onda.
Memore delle ultime opere di Paolo Virzì e tenendosi alla larga dalla deriva volgare quanto da quella nevrotico/borghese di molti colleghi, Veronesi non nasconde la sua simpatia nei confronti di Ernesto (ruolo che, quarant’anni fa, sarebbe stato perfetto per Nino Manfredi), piccolo uomo senza particolari doti che, guardando la televisione dal rassicurante letto matrimoniale in stile Casa Vianello, assiste ai principali eventi della cronaca italiana contemporanea – dall’omicidio di Moro alla vittoria ai Mondiali dell’82, dal lancio delle monetine a Craxi fino alla discesa in campo di Berlusconi – senza perdere il proprio candore, e mantenendo un saggio distacco dall’euforia dei tempi, cui invece si adegua l’amico (fino a un certo punto) Giacinto.
Se l’impianto narrativo e la caratterizzazione dei personaggi – con il contrasto fra ingenuità e opportunismo, fra onestà e corruzione – sembrano rifarsi direttamente al ritratto generazionale pluralista di C’eravamo tanto amati, completamente diverso è l’approccio politico-ideologico che ne consegue: adeguandosi ai vari periodi descritti, si mettono alla berlina sia i socialisti, con l’effimero benessere di cui si fecero portavoce negli anni Ottanta (e qui incarnati da Fabrizio Del Monte, losco ed eccentrico manager interpretato da un gigionesco Sergio Rubini), sia il presunto cambiamento promesso, nel decennio successivo, da Berlusconi (di cui il protagonista, vedendolo sui manifesti, cerca di imitare istintivamente il sorriso). Ma la salvezza non è rappresentata, come nel capolavoro di Scola del 1974, dal populismo comunista (essendo assente un qualsiasi punto di riferimento politico d’opposizione in cui identificarsi), bensì dall’amore e dall’arte, nelle figure di Angela e del Maestro (un Alessandro Haber teatrale e malinconico), burbero pittore con cui Ernesto stringe amicizia.
Non tutto funziona, in realtà, in questo comunque dignitoso film: dopo una prima ora molto buona, specie nella descrizione degli aspetti più deteriori degli anni Ottanta, fra oscure società finanziarie e assurdi contratti di leasing, fra yuppie azzimati e segretarie disponibili (e Virginia Raffaele che, nei panni di Mara, mette a frutto l’esperienza da comica televisiva, pur senza eccedere nel grottesco), nei successivi cinquanta minuti la vicenda si inceppa un po’, con una parentesi medica che vira troppo sul patetismo, per poi glissare sugli ultimi vent’anni. Efficace, però, il finale, ambientato in un presente desolante, forse privo del coraggio e della cattiveria dei modelli di riferimento, ma del tutto coerente con la morale del protagonista.
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