Il grande match: la recensione
Il grande match del titolo è quello tra Billy McDonnen e Henry Sharp, due vecchie glorie del pugilato che decidono di togliere i guantoni dal chiodo dove erano stati appesi una trentina di anni prima per affrontarsi di nuovo, in una sorta di spareggio dopo che i match tra i due avevano visto una vittoria a testa, e dopo che la bella decisiva non si è mai più disputata a causa dell’improvviso ritiro di Sharp. La rivalità tra i due ex pugili, diversissimi per carattere, atteggiamenti e attitudini, travalica l’ambito dell’antagonismo sportivo e si arricchisce di motivazioni personali e private, con l’immancabile elemento femminile come fatale oggetto della contesa.
McDonnen e Sharp sono interpretati da Robert De Niro e Sylvester Stallone, che riprendono così i loro storici personaggi di Jack La Motta di Toro Scatenato e di Rocky Balboa della saga di Rocky (tra l’altro, i volti dei due personaggi sono esplicitamente citati nella prima sequenza), in un film che si può tranquillamente inserire in quel filone degli ultimi anni di recupero e rivitalizzazione di un certo tipo di cinema degli anni Ottanta, prima confinato negli innumerevoli remake di film horror, e ora caratterizzato dal ritorno sulle scene di svariati attori e numerosi personaggi icone del periodo. Lo stesso Stallone, con i due I Mercenari e con la ripresa di Rocky e di Rambo, è protagonista di prima fila di questa tendenza, a metà tra l’autoironia divertita e un certo senso di elegiaca malinconia. Il grande match sceglie chiaramente la prima opzione, apparendo per buona parte della sua durata come una commedia, non priva di elementi parodici, caratteristica che lo avvicina al recente e piacevolissimo Uomini di parola di Fisher Stevens, dove in scena erano invece i tre gangster in pensione Al Pacino, Christopher Walken e Alan Arkin.
Il grande match vive quindi dei botta e risposta tra i due rivali protagonisti, delle battute a volte molto argute e di comprimari che hanno chiaramente il compito di mantenere il tono del film nel territorio del riferimento e della ripresa ironica: questo compito è affidato in particolare all’anziano e caustico allenatore di Sharp, un Alan Arkin come sempre in grande forma, e al giovane e stravagante manager che organizza l’incontro (Kevin Hart). I due protagonisti assecondano, con evidente autoironia, il tono generale dell’opera, caricaturizzando, soprattutto un Robert De Niro particolarmente gigione, i loro storici personaggi che fungono da modello, e facendo anche capire di essersi divertiti durante le riprese. Il film, così, non cade nell’errore di prendersi troppo sul serio ed evita di essere patetico e eccessivamente sentimentalista, rischio che lo sviluppo della trama, tutto sommato prevedibile e risaputo, portava con sé. Anche perché la regia di Peter Segal si dimostra inadeguata ogni volta che non si limita a dirigere il traffico e a nascondersi dietro il botta e risposta delle battute e la caratura dei due attori/personaggio, cosa che accade in particolare proprio nei momenti di maggiore patetismo che così, pur non frequenti, danno l’idea di quanto scontato, banalotto e retorico sarebbe stato il film se non avesse seguito una strada più divertita e ridanciana.
Il tono dominante non impedisce comunque il decantarsi di una sottile malinconia di fondo, di un’atmosfera quasi elegiaca in omaggio al cinema che fu, ad uso e consumo della nostalgia dei fan (e probabilmente degli stessi protagonisti); caratteristica imprescindibile, a volte più evidente altre volte più celata, di questo tipo di cinema di recupero del non troppo lontano passato, quegli anni Ottanta che hanno visto gli ultimi eroi davvero tutto d’un pezzo del grande schermo.
Per concludere, Il grande match viene impreziosito dall’ottima e sofferta prova di Kim Basinger, in una delle sue migliori interpretazioni, nonché uno dei motivi di maggiore interesse di un film sì divertente e piacevole nella sua convenzionalità di poche pretese, ma purtroppo indebolito da una scrittura filmica non all’altezza.
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