Blue Jasmine: la recensione
Blue Jasmine è probabilmente il Woody Allen più cupo e funebre di sempre, quello in cui il pessimismo, presente in modo più o meno latente nella quasi totalità della sua filmografia – vuoi in forma più ironica, vuoi in una cornice chiaramente drammatica – assume un ruolo di assoluta predominanza. Non si ride quasi mai, con l’esclusione di una manciata di dialoghi il cui potenziale umoristico viene comunque stoppato prima che possa deflagrare in un sorriso davvero convinto. Come scritto già altrove, Blue Jasmine è un film “terminale”, in cui la speranza, mai davvero presente nella filmografia del nostro ma comunque sostituita, in qualche modo, da “succedanei” che rendono meno dura e un po’ più agrodolce la realtà, è totalmente assente. Significativo è infatti il fatto che questi “succedanei” tipici e ricorrenti, fino a diventare alcuni degli stilemi più tipici del nostro, come l’arte, la letteratura o un certo tipo di musica, siano qui totalmente assenti. Significativo da questo punto di vista è anche il fatto che questa tetra vicenda sia ambientata in quella California che in più di un film è vista dall’autore con divertito fumo negli occhi, come luogo simbolo della vacuità umana.
Blue Jasmine è anche uno dei prodotti più efficaci del Woody Allen in declino di questo inizio secolo, anche se (permettete la parentesi), benché la perdita di smalto rispetto ai tempi d’oro sia evidente, la severità di parte della critica e della cinefilia è apparsa spesso eccessiva, al limite del livore (al di là delle rovinose cadute nelle trasferte “latine”, per fare alcuni esempi, La maledizione dello scorpione di Giada è un film sì minore, ma con una brillantezza nei dialoghi stupefacente, così come hanno una certa efficacia ennesime variazioni sul tema come Basta che funzioni). Il risultato è un potente e tragico ritratto femminile, con la protagonista un po’ vittima, ma soprattutto carnefice, a cui da linfa vitale una straordinaria Cate Blanchett, e che si ispira vagamente, più che alla tragedia classica (altro modello di riferimento ricorrente in Woody Allen) a Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams.
La narrazione si svolge con un continuo alternarsi tra il presente della protagonista e il passato da lei re-immaginato e rivissuto: Jasmine si trasferisce dalla natia New York a San Francisco, dove verrà ospitata dalla sorellastra Ginger (un’ottima Sally Hawkins). Se Jasmine è il classico prodotto dell’alta borghesia ricca, vuota, avida e snob di Manhattan, abituata a vivere in una gabbia dorata, la sorellastra è invece una donna semplice e verace, esteticamente un po’ sciatta, così come dello stesso tenore sono le sue amicizie e il suo fidanzato Chili. Jasmine, senza più soldi e senza più senso e ordine nella vita, continua comunque a guardare dall’alto in basso, con malcelato disprezzo e snobismo, la sorella, incapace come è anche solo di volere accettare la nuova vita. Più possibilista, ma con lo stesso risultato finale di incomprensione reciproca e di incomunicabilità di fondo, è l’atteggiamento mostrato da Ginger. Nel frattempo, tramite soprattutto i flash-back, scopriamo che Jasmine era sposata con un ricco rapace dell’alta finanza (Alec Baldwin), poi arrestato e suicidatosi in carcere, e che la stessa sorella e il suo ex marito sono stati portati alla rovina proprio dal compagno della protagonista, che li ha coinvolti in una delle sue coraggiose operazioni di finanza creativa. Scopriamo anche che Jasmine soffre di esaurimenti nervosi, che la portano a parlare da sola rivivendo continuamente i momenti della dorata vita passata, oltre a farle avere un rapporto molto denso con la vodka e lo Xanax. Le possibilità di approdare a una nuova felicità naufragano, anche e soprattutto per l’atteggiamento distruttivo e auto-distruttivo della donna.
Il continuo salto passato-presente ci permette di scoprire, gradualmente, la vera essenza della protagonista, solo in parte vittima inconsapevole del marito e del contesto, ma anche “carnefice”, innanzitutto di sé stessa, e poi – essendo capace di egoistiche vigliaccherie – delle persone che la circondano e che vengono a contatto con lei, a partire dalla sorellastra. Jasmin ha sempre accettato, facendo spallucce o corazzandosi dietro la beata ingenuità, le cause alla base della gabbia dorata in cui viveva. Però il film non è e non vuole essere un atto di denuncia, e il ritratto femminile dipinto è, pur nella negatività di fondo, intriso di pietà e di compassione, evidenti per esempio nel primo piano di chiusura, che rafforzano, rendendola più sfaccettata, la caratura tragica della figura. Sullo sfondo, un dichiarato schematismo culturale (molto schematica è la divisione stessa tra i mondi delle due sorellastre) e sociale, certamente un po’ didascalico, ma che contribuisce in un certo modo alla potenza del ritratto della protagonista.
Al netto di un certo schematismo e di qualche lungaggine, il cupo, partecipato e pessimista Blue Jasmine è un film prezioso e potente, che immediatamente dopo la visione lascia un po’ spiazzati, ma che decanta e cresce col tempo. L’ultimo accenno va doverosamente alla straordinaria Cate Blanchett.
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