TFF 2013 – Prince Avalanche: la recensione
David Gordon Green, lanciato in Europa proprio dal Festival di Torino – che nel 2004 proiettò il bellissimo Undertow – con Prince Avalanche affronta il remake di A Annan Veg (Either Way), bel film dell’islandese Hafsteinn Sigurosson, che, per i corsi e i ricorsi storici, vinse il festival sabaudo nel 2011.
I due protagonisti (Paul Rudd e Emile Hirsch) sono operai, soli con gli imponenti e feriti alberi secolari di una zona boschiva del Texas devastata da un grande incendio, nella quale devono risistemare le strisce e la segnaletica stradale. Uno più anziano e maturo, apparentemente sicuro di sé e in realtà fragile, l’altro più giovane e con la testa ancora all’adolescenza, convivono affrontando le loro diversità e le loro crisi, entrambi più o meno consapevolmente in fuga e costretti alla ricerca di sé. Questa ricerca avviene secondo i dettami dello schema classico di convivenza forzata/ scontro/ avvicinamento, e di quello di sicurezza perduta/ crisi/ ritrovamento di un nuovo sé.
Dell’originale, Gordon Green riprende la struttura narrativa di base e le tematiche principali, oltre a mantenere l’opera nel recinto del genere commedia, in entrambi i casi aromatizzata da una buona dose di amarezza di sottofondo. Oltre ad avere spostato l’ambientazione dagli immensi spazi dell’isola scandinava ai boschi del Texas, i cambiamenti si vedono nel tipo di umorismo usato: lì laconico e con Kaurismaki come nume tutelare, qui più vicino alla tradizionale comicità “indie” americana, un po’ folle, qua e là assurda, e con tocchi alla Apatow Club (clan, del resto, a cui Gordon Green ha dato il suo contributo col mediocre Strafumati e con il pessimo Lo spaventapassere, e di cui Paul Rudd è uno degli esponenti principali). In Prince Avalanche, inoltre, in certe scene significative si palesano con più evidenza il sottofondo drammatico e più intimista e la rappresentazione della crisi, che scorrono continuamente sotterranee per apparire qua e là prepotentemente in superficie, come un fiume carsico, così come è più evidente la mano del regista, capace di creare in almeno due/tre occasioni sequenze di grande forza e impatto, in particolare per l’uso del sonoro leggermente scoordinato alle immagini (stiamo pensando soprattutto alla scena della casa distrutta) e per l’insistenza sulla “natura”. Quest’ultimo aspetto, presente anche nell’originale in cui i due personaggi – ripresi spesso in campi lunghi e lunghissimi che esaltano l’immensità dei paesaggi islandesi – sembrano elementi di un quadro, è ricorrente, con frequenti inquadrature dal basso degli alberi che evidenziano la loro imponenza e che spesso aprono le sequenze schiacciando metaforicamente i personaggi nelle loro condizioni, o tramite l’altrettanto ricorrente comparsa di animali, metafora più scolastica della “lotta alla sopravvivenza” a cui i due sono costretti.
Nell’insistita cornice boschiva, Prince Avalanche coglie l’obiettivo di far ridere e soprattutto sorridere molto, per merito dei dialoghi, della sapiente aggiunta di un personaggio (il vecchio camionista) portatore di follia e per merito dei due protagonisti: bravo Hirsch, strepitoso Paul Rudd. Efficace anche il dosaggio comicità/amarezza, sempre equilibrato e che permette al film di essere, al netto della prevedibilità e dello schematismo di fondo, un buon racconto di crisi e di ritrovamento. Così, Prince Avalanche può essere considerato un degno esempio di quella “commedia del disagio” in cui la comicità, irresistibile e amara, diventa cassa di risonanza della crisi e del malessere, e che negli ultimi anni ha in Apatow (appunto) e in Wes Anderson gli esponenti più importanti.
Peccato solo per il finale deboluccio e meno convincente rispetto al resto dell’opera, per il troppo scolastico parallelo tra la rinascita dei due e la rinascita di quelle zone colpite dall’incendio e per l’inquadratura finale, a rischio banalità e retorica fino a quel momento sempre schivato, dei bambini che giocano.
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Chiara C. | ||
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