A Hijacking: la recensione
S’era cominciato a ragionare in tal senso nell’ormai lontana estate del 2012, quando Kapringen veniva proposto nella sezione Orizzonti di Venezia 69; a distanza di oltre un anno, la seconda visione – propiziata dal Detour Festival patavino – del film, ormai più noto con il titolo internazionale A Hijacking, conferma quello che allora era solo pour parler, un gruppo di ipotesi e considerazioni allo stadio larvale.
La prima: Tobias Lindholm, classe 1977, è uno degli autori più interessanti provenienti dal cinema nordeuropeo degli ultimi anni. La seconda, eventualmente meno condivisibile: il ragazzo, anche sceneggiatore degli ultimi film del connazionale Thomas Vinterberg (Submarino, Il sospetto, il prossimo Far from the Madding Crowd), ha fatto in modo, consapevolmente o meno, di tenere per sé le sceneggiature migliori. Basti pensare al film d’esordio, il carcerario R. (scritto e diretto, in realtà, a quattro mani, con Michael Noer come compagno di ventura), passato perlopiù in sordina anche a causa del contemporeaneo trionfo di Un prophéte ma, al netto di acerbità varie, meritevole di interesse. Infine, la terza considerazione, più legata al film in questione: in quello che comincia a delinearsi come un percorso di crescita tangibile se non singolare, un film come Kapringen alza l’asticella, delle ambizioni come dei risultati.
È un cinema, quello di Lindholm, che s’afferma e si significa negli spazi circoscritti, siano questi i perimetri lungo i quali si svolge l’azione vera e propria (gli angusti interni della nave sequestrata dai pirati, gli uffici asettici nei quali hanno luogo le trattative per gli ostaggi) o le barriere, altrettanto tangibili, proprie di un intero genere. Accettati i primi, però, Kapringen entra in rapporto dialettico con le seconde: asciugando laddove possibile l’azione (perlomeno, quella intesa nel senso più cinetico del termine), scavando nelle psicologie degli attori in gioco (tutti bravissimi), annegando le atmosfere nelle livide ondulazioni della colonna sonora di Hildur Guðnadóttir. Palesando, all’interno di un genere poco avvezzo al rischio, la presenza di un autore, pieno padrone delle meccaniche che sono proprie della sceneggiatura, ma anche capace di sublimarle in un’efficace sintesi espressiva. In poche parole, bravo, e consapevole di esserlo.
Scritto da Giacomo Ferigioni.
Continua a errare su Facebook e Twitter per essere sempre aggiornato sulle recensioni e gli articoli del sito.
Regista: - Sceneggiatore:
Cast: