Il Comandante e la Cicogna segna il ritorno di Silvio Soldini alla commedia, genere da cui mancava dai tempi di Agata e la tempesta (2004), e che tanti fasti gli ha portato con quel piccolo gioiello che era l’ottimo Pane e tulipani. Quest’ultimo è stato il suo più grande successo, non solo di critica ma anche di pubblico, nonostante l’autore milanese sia sempre stato solito, e più a suo agio, confrontarsi con storie drammatiche e intimiste. Inevitabile, quindi, che si sia cercato di ripetere il colpaccio: ma se già Agata e la tempesta mostrava qualche scricchiolio e una minore freschezza, pur rimanendo su un livello più che accettabile, Il Comandante e la Cicogna rappresenta un passo falso: se non proprio una rovinosa caduta, sicuramente almeno una scivolata.

Anche nei risultati meno convincenti, Soldini infatti non ha mai dato l’impressione di sfornare opere inutili o immediatamente dimenticabili, a differenza di una parte del cinema nostrano a lui contemporaneo: questa volta, invece, il film, appena usciti dalla sala, vola via un po’ come cerca di fare Agostina, la cicogna del titolo. L’unica cosa che rimane è la fastidiosa sensazione che regista, produttori e sceneggiatori abbiano voluto propinare una non più di tanto convinta ripresa di Pane e Tulipani, all’apparenza solo un po’ più legata alla realtà italiana. Il mix di commedia surreale, romanticismo, tenerezza verso gli stravaganti personaggi, grottesco e rimandi metaforici alla situazione del Paese è alla base delle vicende vissute da un idraulico (Valerio Mastandrea) vedovo e con figlia in piena adolescenza e alle prese con le insidie di Youtube e figlio che diventa amico di una cicogna, da una sfortunata artista (Alba Rohrwacher) costretta a lavorare per un avvocato maneggione e truffaldino (Luca Zingaretti) e da uno stravagante nullafacente dispensatore di citazioni e aforismi e aspirante poliglotta (Giuseppe Battiston).

Inoltre, c’è la partecipazione straordinaria di gente del calibro di Giuseppe Garibaldi, Giacomo Leopardi e Leonardo Da Vinci (a cui danno voce Pierfrancesco Favino e Neri Marcorè): le loro statue hanno il compito di piangere il triste presente del Belpaese, lamentandosi dei problemi congeniti quali l’illegalità e il menefreghismo diffusi. Un po’ come se i grandi della patria Storia avessero il ruolo di coscienze critiche: proprio questo è uno dei problemi, per il tono eccessivamente retorico e didascalico, e anche un po’ moralista, che assumono. Le statue dicono, inutilmente e pedantemente, quello che sarebbe dovuto essere trasmesso nel corso del film tramite le scelte di sceneggiatura, di descrizione dei personaggi e stilistiche. La carica satirica e di sconsolata metafora degli anni grigi del nostro Paese e della sua deriva sociale e culturale perde così di efficacia e di valore, rimanendo, quando va bene, in superficie e, quando va male, dando l’impressione di una un po’ furbetta retorica dell’O tempora, o mores!.

Paradossalmente, c’era più pregnanza sociale e anche politica nel racconto, apparentemente fine a se stesso, degli smarrimenti e delle solitudini di Pane e Tulipani, con le molteplici chiavi di lettura, dove l’immediata solarità era in realtà più coerente con la poetica e le tematiche di Soldini e più calzante alla situazione generale. Cosa si salva? Un numero discreto di risate, la professionale prova degli attori e qualche efficace frammento qua e là, che lasciano intravedere la bella commedia, surreale e ironica, che poteva essere, aumentando così i rimpianti e l’amarezza.

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Alice C.
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