Tony Scott si è suicidato a Los Angeles, buttandosi da un ponte.

Ho sempre pensato che il fiaccamente scolastico verso dei Baustelle sarebbe stato magnifico se solo il Bianconi avesse avuto il buon senso di usare i fratelli registi piuttosto che gli omonimi Manzoni: “degli Scott preferisco quello vero / Tony” (versione che tra l’altro avrebbe evitato la moscissima rima baciata dell’originale). Amato, odiato, ignorato, sbeffeggiato, rivalutato, il Tony ha per anni sofferto l’ombra più autoriale del Ridley, è stato per lungo tempo considerato un buon mestierante integrato al sistema e alla macchina hollywoodiana, colpa primigenia che negli anni 80 l’ha marchiato come l’ideale prodotto televisivo per le prime serate di Italia 1, piuttosto che come regista in grado di mettere al centro l’azione e gli attori invece delle proprie velleità (cosa, questa, che il Ridley c’ha impiegato anni a capire). Ci son voluti Tarantino e la sua rilettura gay di Top Gun per smuovere le acque stagne della critica, più le immani ciofeche sfornate nel frattempo dal fratello a far ripensare che, sì, infilare The Duellists, Alien e Blade Runner è roba da manuale del cinema, ma anche la costanza con la quale il Tony ha sempre immerso le proprie inquadrature in un certo controluce al tramonto, o quella particolare idea di montaggio schizofrenico esaltato da bizzarri movimenti di macchina sono elementi di tutto rispetto.

Lungimirante produttore (soprattutto televisivo: The Good Wife e Numb3rs alcuni dei serial ai quali ha partecipato) oltre che regista, Tony Scott rimarrà nei nostri occhi d’adolescenti innamorati del volto pesto del Bruce Willis di The Last Boy Scout (forse il suo film migliore, di sicuro quello più esplicitamente divertente) un professionista ancora da riscoprire del tutto, una di quelle figure che acquisterà sempre maggiore significato nel tempo, mano a mano che la sua intera produzione sarà considerata come un blocco unico piuttosto che analizzata e dissezionata nelle sue singole componenti.

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