Ernest Borgnine, leggendario attore americano, premiato con l’Oscar nel 1956 e interprete di oltre 180 film, è morto lo scorso 8 luglio a Los Angeles alla veneranda età di 95 anni.

Nato a Hamden, nel Connecticut, da genitori italiani, come Ermes Effron Borgnino, mosse i primi passi nel campo della recitazione subito dopo la Seconda guerra mondiale, dove aveva prestato servizio nella Marina, ed esordì sul grande schermo, nella parte di un criminale, nel film noir diretto da Robert Parrish Luci sull’asfalto (1951). Il fisico massiccio, i lineamenti marcati e l’inconfondibile ghigno lo rendevano un interprete apparentemente poco adatto a ruoli da protagonista: infatti, nei primi anni della sua carriera, fu spesso impiegato come caratterista per impersonare personaggi rozzi e brutali, inclini alla violenza, come il sergente Fatso Judson di Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann, il bandito di Vera Cruz (1954) di Robert Aldrich e lo scagnozzo di Giorno maledetto (1955) di John Sturges.

Fu Delbert Mann a intuire le eccellenti capacità recitative dell’attore, quando lo scelse per il ruolo principale – il macellaio italiano Marty Piletti – nel film sentimentale Marty, vita di un timido (1955): fu una prova memorabile, con la quale Borgnine dimostrò di saper andare ben oltre il suo stereotipo di cattivo, dando vita a un personaggio simpatico e gradevole nella sua normalità, che gli valse un meritatissimo Oscar come miglior attore protagonista. Ad esso seguì, sempre sulle stesse corde, Pranzo di nozze (1956) di Richard Brooks, dove impersonò il premuroso padre della sposa: per quanto un po’ troppo giovane per la parte, la sua recitazione si confermò perfetta.

Trascorso circa un decennio di caratterizzazioni di buon livello in film di vario genere – nessuna delle quali, però, particolarmente importante – nel 1967 prese parte, nel ruolo di un burbero generale, al kolossal bellico Quella sporca dozzina, diretto nuovamente da Robert Aldrich, il regista che fece di lui il suo attore feticcio facendolo recitare in ben sette film, fra i quali il capolavoro del 1973 L’imperatore del Nord, in cui Borgnine diede vita al personaggio del capotreno, sadico e crudele ma non privo di un personale senso dell’onore: il suo duello fisico e recitativo con il re dei clandestini Lee Marvin, sullo sfondo della Grande Depressione, passò alla storia come una pagina di grande cinema epico. Folgorante fu il suo incontro con Sam Peckinpah, che gli affidò il ruolo del braccio destro di William Holden, cinico e fatalista nonché velatamente omosessuale, nel capolavoro western Il mucchio selvaggio (1969) e quello dell’irridente sceriffo Dirty Lyle, nemesi di Kris Kristofferson/Rubber Duck, in Convoy – Trincea d’asfalto (1978).

Altri personaggi memorabili, all’insegna di un istrionismo mai eccessivo e di un’espressività senza rivali, furono il feroce gangster de I sei della grande rapina (1968) di Gordon Flemyng, il capufficio carogna di Willard e i topi (1971) di Daniel Mann, il giornalista ficcanaso di The Black Hole (1979) di Gary Nelson e, soprattutto, il taxista bombarolo di 1997 – Fuga da New York (1981) di John Carpenter.

Dagli anni Ottanta in poi, ormai raggiunta la terza età, Borgnine faticò a trovare ruoli all’altezza del suo talento, pur restando attivissimo sia sul grande che sul piccolo schermo. Nel 2002, anno in cui fu festeggiato dal comune di Carpi, città d’origine di sua madre, con un festival cinematografico a lui dedicato, fu scelto da Sean Penn come protagonista dell’episodio americano del film collettivo 11 settembre 2001, confermando il suo immenso talento nel toccante ritratto di un anziano perso nel ricordo della moglie defunta. Un ruolo simile, interpretato nella stagione finale di ER, all’età di novantadue anni, gli valse nel 2009 la candidatura al premio Emmy, la terza in trent’anni, dopo quelle ottenute per i TV-movies Niente di nuovo sul fronte occidentale (1979) e A Grandpa for Christmas (2007).

Ormai consolidatosi nel ruolo di memoria storica del cinema hollywoodiano – non a caso una delle sue ultime apparizioni è stata nel film RED (2010), tratto da una graphic novel di Warren Ellis, nella parte di un archivista – si è congedato dal cinema, e dalla vita, con il personaggio del malinconico deejay radiofonico protagonista di The Man who shook the Hand of Vicente Fernandez (2012).

La sua inconfondibile risata, sardonica e sprezzante eppure così umana, riecheggia ora da qualche parte, tra le nuvole, qualche metro sopra la collina di Hollywood, a ricordarci quanto si possa essere grandi pur restando profondamente normali.

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