Viene finalmente rieditato in questi giorni un cofanetto contenente cinque opere che hanno come protagonista Bruce Lee  (tre film originali, più due film assemblati usando materiali d’archivio montati assieme a scene con attori camuffati alla meno peggio da Bruce Lee). I cinque film contenuti nel cofanetto sono Jingwumen (Dalla Cina con furore), Tang shan da xiong (Il furore della Cina colpisce ancora), Měng Lóng Guò Jiāng (L’ urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente), Game of Death (L’ ultimo combattimento di Chen) e Game of Death 2 (L’ ultima sfida di Bruce Lee). Se a questi aggiungete Enter the Dragon (I tre dell’operazione Drago), reperibile anche in blue-ray, vi ritroverete fra le mani il nucleo fondamentale dell’opera cinematografica di Bruce Lee.

Quale migliore occasione quindi per spendere due parole sulla Piccola Fenice (uno dei tanti nomi affibbiatigli durante l’infanzia)? Due parole che non riguarderanno l’indiscussa importanza nell’ambito della diffusione in occidente e dell’apprezzamento delle arti marziali che Bruce Lee ha avuto; e non riguarderanno neppure i film in sè, con i loro esili intrecci intrisi prima di risentimenti nazionalistici anti-nipponici e poi di lotte senza quartiere contro i traffici criminali d’ogni nazione; così come non perderò tempo a parlare del giovane e irsutissimo Chuck Norris (non ancora in grado di spostare il pianeta Terra durante le flessioni mattutine), che ricopre il suo primo ruolo importante facendosi pigliare a calcioni in faccia dal Lee sullo sfondo del Colosseo nel finale de L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (pellicola ambientata a Roma, tra l’altro). No, qui parlerò di Bruce Lee come della perfetta epitome del corpo cinematografico.

Di Bruce Lee, infatti, poco importa se la recitazione durante le scene normali, quelle in cui si fa scorrere forzatamente la stramba trama di turno, sia un altalenarsi meccanico e prettamente scolastico di sorrisetti, smorfie, strabuzzamenti d’occhi e ammiccamenti. La vera forza del Lee, in ogni possibile senso, salta fuori unicamente da quando si strappa di dosso il camicione e inizia a tendere i muscoli a favore di camera in poi. Altro che Tornatore con Monica Bellucci, o Vadim con Brigitte Bardot: il binomio perfetto tra regista al servizio del corpo dell’attore e attore stesso è Bob Clouse con Bruce Lee.

Prendiamo la sequenza finale de I tre dell’operazione Drago: ecco, lì c’è tutto il cinema moderno – la stanza degli specchi (come non pensare a La signora di Shangai di Welles?), il sangue, la nudità lucente che già si pone in un essere perfettamente plastico, oltre la crassa e propagandistica violenza muscolare di uno Stallone, o l’ottusa morbosità venata di ridanciano di uno Schwarzenegger. Il corpo di Bruce Lee scintilla di un desiderio assoluto di precisione ed efficenza, di espressività pura e determinazione energetica. È un corpo che non buca lo schermo e la scena, ma le modella attorno a sè, rigerarchizzando le priorità dello sguardo, attirando camera e occhi su una qualsiasi delle innumerevoli linee scolpite nei propri addominali e pettorali. Tanto che la magnifica idea di ricoprirlo di un giallo squillante nei pochi minuti originali di Game of Death – film al quale Lee si stava dedicando nella triplice veste di attore, sceneggiatore e regista, quando lo colse a soli 33 anni la morte in seguito a un dubbio malore – non poteva essere poi che inevitabilmente ripresa sia da quel simpatico pasticcione del Tarantino in Kill Bill vol.1, sia da quella macchina da commedie del Chow in Shaolin Soccer. Un corpo cinematografico, quello di Bruce Lee, che dopo più di trent’anni non ha ancora trovato equivalenti degni di paragone.

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